di Stefano Amoroso
Con l’approvazione della manovra di bilancio 2025, la maggioranza di Governo conferma di essere fedele alla sua linea di austerità, e priva di coraggio, in un momento critico sia per l’economia europea che per la situazione politica mondiale. Come era facilmente prevedibile sin dalla sua presentazione, lo scorso 15 ottobre, la Finanziaria taglia la spesa per salute ed istruzione, reintroduce i famigerati tagli lineari, elargisce pochi spiccioli a lavoratori e pensionati (addirittura solo 1,8 euro in più ai pensionati con pensione sociale) e non prevede nuovi investimenti in ricerca e sviluppo. Contemporaneamente in Germania, pur con una recessione in atto ed una situazione politica instabile, si aumenta ad oltre il 3% la spesa in ricerca ed innovazione tecnologica, mentre la nostra resta ferma all’1,3%. Perché è questo quello che fanno i grandi Paesi nei momenti di difficoltà: aumentano, e non diminuiscono, le spese che porteranno futura crescita e sviluppo. L’Italia resta ancorata alla sua crescita asfittica che nei prossimi anni si ridurrà ulteriormente ad un misero +0,5 o +0,7%, non redistribuisce praticamente nulla e si limita ad una ordinata gestione dell’esistente senza un guizzo, un’idea o un’intuizione che ci porti fuori dal pantano. Certo, la maggioranza potrà rivendicare di non aver aumentato le imposte (vero per quest’anno, molto meno per quelli a venire) e di aver confermato i tagli al cuneo fiscale introdotti sperimentalmente dai precedenti governi. Ma non basta per far fare all’Italia il balzo che tutti si aspettavano con il Pnrr e dopo le importanti riforme degli anni passati. Viene da chiedersi se la riduzione del rapporto tra deficit e Pil, ed in prospettiva del rapporto tra debito/Pil, sia davvero la priorità numero uno, in un momento in cui le guerre impazzano sia nell’Est Europa che nel Mediterraneo, disegnando un arco di sangue e tensione proprio intorno all’Italia. E ci s’interroga sulla reale efficacia di una politica di pura ortodossia finanziaria, quando tra poche settimane, con l’insediamento del Presidente Trump, inizierà un lungo e duro confronto tra Usa e Ue sui dazi, che ci vede pesantemente coinvolti in quanto Paese manifatturiero ed esportatore netto negli Stati Uniti. Avere i conti in ordine è doveroso, soprattutto per tutelare la classe media e la credibilità dello Stato sulla scena internazionale. Tuttavia, e questo non ci stancheremo mai di ripeterlo, il rapporto tra debito e Pil non è fatto solo dal numeratore, ma anche dal denominatore: se aumenta fortemente il Pil, anche in presenza di un piccolo aumento del debito, il rapporto diminuisce. Se invece, pur diminuendo il debito, il Pil cala, non sarà possibile ridurre il rapporto. Il Governo avrebbe dovuto trasmettere al Paese ed alle agenzie di rating mondiali la sensazione di un esecutivo che punta allo sviluppo e che si muove per cercare nuovi sbocchi commerciali internazionali per le nostre produzioni di pregio, muovendosi in linea con quello che fanno tutti i Governi che si sono succeduti al potere in Italia negli ultimi trent’anni almeno. Tanto più che il Governo Meloni ha a disposizione quello che nessun Governo precedente ha mai avuto: il Pnrr, con una dotazione importante di circa 200 miliardi di euro. La Commissione, nel varare il Pnrr, si era raccomandata di utilizzare questo strumento eccezionale come volano per lo sviluppo, e non come strumento di consenso elettorale e diminuzione del debito. Invece il Governo Meloni, incaponendosi per modificare il Piano già approvato, è riuscito a fare proprio il contrario di quanto auspicato da Bruxelles: le mance elettorali sono aumentate ed i favori ai gruppi di pressione amici della maggioranza sono numerosi. Mentre la produzione industriale continua a calare, gli stipendi stagnano e molti italiani, ormai, guardano al futuro con preoccupazione mista ad angoscia.