IL DOVERE DI RACCONTARE LA GUERRA. Le bombe uccidono ancora. Gaza è isolata nella disperazione

di Andrea Follini

In questo periodo, tra Natale e Capodanno, non mancano disamine sull’anno trascorso e propositi per l’anno a venire. Non ovunque questo esercizio si rivela possibile. In molte, troppe parti del modo, gli echi delle bombe e gli orrori e le violenze della guerra, uccidono migliaia di persone, e con esse la speranza. A poche centinaia di chilometri dalla nostra comfort zone, le situazioni di tensione non fanno intravvedere nulla di buono per il futuro, come tetro è anche il recente passato. Papa Francesco continua, anche in occasione del Natale, a chiedere pace, di fermare le armi, di aprire i cuori ad una nuova fratellanza. Voce sola ed inascoltata, anche da chi potrebbe mettere un po’ più di impegno nel tentativo di riportare almeno una parvenza di normalità, in territori e popoli dove regna unicamente il sentimento dell’odio. E così, in questa fine d’anno, non mancano le notizie dai fronti di guerra; sembriamo quasi abituarci a queste situazioni, le consideriamo sempre più “normalità”. Ma come può essere normalità ciò che sta accadendo in Medio Oriente, in Ucraina o nelle distanti latitudini del Sudan dove nella più alta indifferenza del mondo, con la guerra si sta vivendo la più grave crisi umanitaria del pianeta, come certificato dalle Nazioni Unite. Da quando è ripresa, il 7 ottobre 2023, con il vile attacco degli uomini di Hamas nei kibbutz ed in altri territori israeliani, da queste pagine abbiamo seguito con attenzione la guerra israelo-palestinese, il suo intensificarsi, le sue derive; abbiamo dato notizia della sproporzione con la quale la rappresaglia di Tel Aviv ha di fatto portato a morire 45 mila persone civili, isolato Gaza nella disperazione di una eterna assenza (di cibo, di assistenza sanitaria, di futuro), distrutto gran parte delle infrastrutture. Abbiamo ascoltato voci autorevoli e disperate raccontare la vita in un territorio nel quale ogni minuto non sai se possa essere il tuo ultimo sguardo o meno sulla vita. Abbiamo cercato di far partecipe il lettore di quanto orribile possa essere sopravvivere in questi contesti di violenza e di orrore. Non abbiamo mancato di dare anche una lettura politica di quanto in quel conflitto si è messo in gioco; un “gioco” nel quale continua a nostro avviso a prevalere la necessità non celata di una sopravvivenza politica, anche al costo di far cessare quella di migliaia di persone. La denuncia di questa situazione, lo sappiamo bene, non è piaciuta a tutti. Si è scambiato il nostro essere critici con un governo vocato solo alla sete di potere, con l’attacco ad un intero popolo. Lo ribadiamo con chiarezza: non vi sono analisi, convinzione e pregiudizi più sbagliati di questi. Quando abbiamo messo in luce le critiche che anche dall’interno del Paese il governo Netanyahu ha ricevuto, lo abbiamo fatto coscienti che raccontavamo di una democrazia (l’unica in quel lembo di mondo) capace di sopportare anche le deviazioni più ardite di governanti senza scrupoli. Certo, una democrazia dove si pretenderebbe di zittire le voci dissidenti (vedi il caso del tentativo di bavaglio del giornale, non certo filo-governativo, Haaretz e la chiusura di Al Jazeera) che razza di democrazia è? Non sappiamo se sarà necessario attendere il 2026, data della fine naturale del governo Netanyahu, o se Israele potrà godere prima, attraverso il voto anticipato, di una nuova primavera. Non sappiamo se avranno più forza nel raggiungimento di questo obiettivo, gli esiti dei numerosi processi nei quali la leadership israeliana è chiamata a rispondere dei reati di corruzione, piuttosto che il mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti del premier e del defenestrato ministro della difesa Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Oppure se, attorno a tutto ciò, avranno un ruolo determinante le grandi mobilitazioni dei cittadini israeliani che non smettono di protestare in sempre più partecipate manifestazioni di piazza contro il governo. In tutto questo, l’area mediorientale sta subendo veloci trasformazioni politiche, dal futuro per nulla certo: la cacciata di Assad in Siria, la ripresa dei bombardamenti di Israele nello Yemen contro gli Houthi ed i lanci di missili di questi ultimi verso Israele, l’occupazione israeliana delle alture del Golan, le mai sopite (ma poco riportate dai media, che noi abbiamo raccontato) violenze in Cisgiordania, l’inserimento della Turchia nella geopolitica dell’area e l’incognita iraniana. Tutto nell’attesa di vedere cosa succederà dopo il 20 gennaio, data di insediamento alla Casa Bianca del “di-nuovo” Presidente degli Usa Trump. Mentre tutto ciò si rappresenta con una nebulosa situazione di stallo, dove soprattutto a non farsi strada sono la chiarezza e la pace, non trovano concretezza nemmeno i più recenti tentativi di avviare almeno un temporaneo cessate il fuoco. Non lo si è raggiunto per Natale; non si trova la quadra sul rilascio degli ostaggi nei negoziati in corso al Cairo. Ma lo si vuole veramente? Fermare il conflitto, consentire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza, far riemergere la voglia di futuro: lo si dovrebbe ai tanti morti di questa guerra ripresa. Consentire ai palestinesi di risollevare la propria sorte; far vivere in pace e sicurezza il popolo di Israele. La luce in fondo al tunnel a noi pare sempre la stessa: la costituzione di due Stati, sovrani ed indipendenti, per due popoli che in quell’area sono destinati a convivere per sempre, perché l’annientamento dell’uno significherebbe la scomparsa dell’altro. Parrebbe tanto semplice. Ma semplice, evidentemente, non è.

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