Soffia da levante un vento socialista

di Alessandro Silvestri

Se la settimana di Pasqua è stata caratterizzata meteorologicamente da un intenso scirocco recante un gigantesco nuvolone di polvere sabbiosa, che ha fatto da cappa alla prima pausa vacanziera dell’anno, il vento di Levante proveniente dalla Turchia, ci consegna un nuovo quadro politico della democrazia islamica più occidentale, divenuta sempre più cerniera e confine del nuovo quadripolarismo mondiale Est/Ovest-Nord/Sud: Recep Tayyip Erdogan il sultano di Ankara, non è più di fatto monarca assoluto e plenipotenziario. Così come nella sponda più a Sud-Est del Mediterraneo, quella in fiamme per la guerra Israele/Hamas, dove il popolo israeliano è sceso massicciamente in piazza ed ha sfilato davanti la Knesset, per sfrattare Benjamin Netanyahu da guida suprema, perché i popoli liberi, è noto, amano la pace e non la guerra. E probabilmente anche quelli meno liberi, come in Russia. Ma andiamo per ordine. In Turchia, alle amministrative del 31 marzo, il partito di Erdogan ha preso una sonora scuffia (complici anche le politiche economiche disastrose del suo governo, con l’inflazione salita a quota 70%) perdendo altre dodici grandi città, e non riprendendosi nemmeno una di quelle che erano amministrate dal CHP, il partito “kemalista” guidato da Ozgur Ozel che ha dichiarato a caldo: “oggi i nostri elettori hanno fatto una scelta molto importante, hanno deciso di stabilire una nuova politica in Turchia”. Un successo ottenuto anche con la riconferma dei sindaci uscenti delle metropoli di Istanbul e Ankara perché, anche in Turchia, vige la regola che se conquisti e amministri bene le principali città, hai poi la strada spianata per la conquista politica del Paese. Vedremo. Intanto il CHP, che diciamolo a voce alta è il partito socialdemocratico turco, aderente al PSE, visto che i media italiani tendono complessivamente a dimenticarlo, è diventato il primo partito del Paese col 37,7% mentre quello di Erdogan è sceso al 35,4%. Una buona notizia non solo per i socialisti ma per tutta la Ue, visto che la svolta laica e progressista turca guarda nel risiko delle alleanze, decisamente con maggior favore all’Europa e all’Occidente in generale, ed è la miglior barriera possibile all’avanzata dei fondamentalismi. Nihil sub sole novum. Se Ankara ride, Gerusalemme non ha più voglia di piangere. Lo ha dimostrato ampiamente in questi giorni il suo popolo che è sceso pacificamente per le strade della capitale, di Tel Aviv  e delle principali città, determinato però a chiedere le dimissioni di Netanyahu, lo stop alla guerra a Gaza, la liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas, ma non solo, visto che il conflitto in atto si sta allargando al Libano e alla Siria. Gli israeliani vogliono sinceramente la pace, perché saggiamente sanno che esasperare i conflitti col mondo arabo, non è la miglior garanzia per salvaguardare il loro diritto ad esistere, ad avere il loro Stato, a mantenere una se pur problematica coesistenza. Esattamente come ne hanno diritto i palestinesi, finiti per una lunga serie di errori politici anche di Israele e dei partner occidentali, nelle grinfie di una organizzazione retrograda, col calendario dei diritti civili fermo all’anno mille, incline al terrorismo e alla dittatura teocratica. Il popolo non sempre ha ragione ma questa volta ne ha da vendere, perché il rischio serio, oltre alle ragioni puramente umanitarie, è che la nazione ebraica nata dopo l’orrore della Shoah, si trasformi agli occhi del mondo, per una terribile e cinica eterogenesi dei fini, in un popolo di oppressori ciechi e sanguinari. Perché nel caso di Israele è la sua retriva guida politica ad essere inadeguata, e la forza della protesta delle migliaia di giovani e di cittadini di tutti i ceti sociali, è in strada apposta a chiedere con forza e determinazione non soltanto la fine delle ostilità e dei bombardamenti sui civili inermi, disperati e affamati di Gaza, ma del loro stesso governo, incapace di aver riportato a casa gli ostaggi in maniera incruenta, così come dello strapotere e dei privilegi concessi alle frange ultraortodosse interne, pretendendo contestualmente la celebrazione di nuove elezioni. Netanyahu ha intanto risposto picche e fatto disperdere i manifestanti che bloccavano la Ayalon highway con i cannoni ad acqua, arrestandone sedici. Non solo, ha ribadito la sua determinazione a proseguire con l’operazione di terra a Rafah, dove sono ammassati, in condizioni disumane, più di un milione di sfollati. Il primo ministro israeliano ha ripetuto che sconfiggere Hamas nella città è essenziale per la vittoria. Una posizione insensata e assurda che non solo finirà per inasprire anche il conflitto politico interno in atto, ma che sta aumentando il mal di fegato del suo omologo Biden, che da settimane sta provando in tutti i modi a far desistere il sei volte capo del governo israeliano dal commettere un ulteriore e tragico errore, e che una cosa almeno ha ben presente: non ci sarà un Netanyahu VII. E non sarà di certo un male per tutto il Medio Oriente.

 

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