di Lorenzo Cinquepalmi
Il tema della democrazia governante, o democrazia decidente, fu autorevolmente posto proprio dai socialisti negli anni ‘80 con Bettino Craxi. L’esigenza di avere un esecutivo forte e con più ampi margini di autonomia decisionale, per rendere l’azione di governo più rapida e incisiva, pur nel quadro dell’indirizzo parlamentare, aveva condotto a elaborare la proposta dell’elezione diretta del capo dell’esecutivo. La similitudine con la proposta Meloni, però, si ferma qui. La più evidente e dirimente differenza è nel quadro politico d’insieme in cui si iscriveva l’elaborazione craxiana: allora la necessaria controspinta democratica al rafforzamento dell’esecutivo era assicurata da un sistema di partiti che aveva al suo interno, all’interno di ciascun partito, l’organizzazione dell’espressione della volontà popolare. Ciascun partito era retto da regole e consuetudini tali da assicurare il pluralismo e la democrazia interni; la selezione della dirigenza politica dei partiti avveniva attraverso il tesseramento, i congressi, le articolazioni territoriali; e con lo stesso meccanismo, espresso da mozioni congressuali e votazioni, era elaborata la linea politica. Chiaramente, innestare su un sistema politico così ramificato e solido un capo dell’esecutivo rafforzato nelle prerogative e, attraverso l’elezione diretta, nella legittimazione, non determinava uno squilibrio tra poteri, proprio perché quello legislativo e di controllo, rappresentato dal parlamento, era sostenuto e garantito dal sistema dei partiti. E, infatti, il parlamento, anche per questa ragione, era eletto con voto proporzionale e senza soglie di sbarramento, perché si era voluta privilegiare la rappresentanza rispetto alla solidità delle maggioranze, essendo la funzione di queste ultime affidata alla mediazione dei partiti politici. E qui sta la differenza fondamentale tra il pensiero craxiano e il pasticcio meloniano: il parlamento attuale, per effetto combinato tra leggi elettorali maggioritarie, soglie di sbarramento e liste bloccate, è una specie di accampamento di tribù nomadi di eletti per caso o per beneficio del satrapo di turno, senza reale rappresentanza degli elettori. Per assurdo, in assenza del ruolo di mediazione di partiti politici strutturati e organizzati su base realmente democratica, il carattere tribale del parlamento finirà con l’esporre il capo dell’esecutivo a imboscate ancora più pericolose di quelle pur esistenti oggi, e infinitamente più devastanti di quelle della prima repubblica. Il tutto, in un contesto di indebolimento dell’altro grande mediatore della politica esistente nel nostro ordinamento: il Presidente della Repubblica. La realtà, quella dal cui riconoscimento la classe dirigente politica odierna sfugge interessatamente, è che un Paese è ben governato quando è retto da una democrazia decidente; cioè da un potere decisionale autorevole che sia, però, espressione di una spinta democratica forte. E che una spinta democratica forte è la conseguenza solo ed inevitabilmente di partiti politici forti, ramificati, coinvolgenti un numero di cittadini il più alto possibile. Ecco perché il premierato meloniano è una riforma ad personam: un abile compromesso tra potentati, in cui la tribù parlamentare salviniana assicura il suo appoggio in cambio di un altro errore politico come l’autonomia differenziata. L’esperienza degli ultimi due decenni ci ha insegnato che, annientati per via giudiziaria e per strangolamento economico i grandi partiti di massa (e rispetto alla politica di oggi, anche il partito repubblicano e quello liberale erano grandi partiti di massa), la volontà politica del popolo si catalizza solo “contro” qualcosa, e non più “per” qualcosa. Inevitabile, visto che per incanalare le emozioni positive verso il fare occorre un’organizzazione, mentre per scatenare il popolo a demolire bastano poche parole d’ordine. Meloni sa che senza la maggioranza qualificata costituzionalmente prevista, la sua riforma andrà verso il referendum confermativo, nel quale non c’è quorum ed è molto più facile promuovere il voto contrario che quello favorevole. Il compito di chi crede ancora nella politica come strumento per migliorare la vita dei cittadini, però, non potrà essere solo quello di abbattere la riforma Meloni, ma anche quello di cogliere l’occasione per riavvicinare più cittadini possibile, soprattutto più giovani possibile, all’impegno civile della salvaguardia dell’equilibrio costituzionale da cui dipende la libertà di tutti, con l’obbiettivo di trasformare l’impegno civile in impegno politico e cominciare a cambiare verso alla spirale di imbarbarimento che da trent’anni annichilisce il nostro Paese. Meloni, col suo premierato, tenta il colpo di diventare l’Orban d’Italia ma corre il rischio di servirci un assist per riportare il Paese a muoversi nella direzione opposta. Sta a noi cogliere l’occasione.