di Andrea Follini
Cinque inchieste; quattro processi; più commissioni parlamentari d’inchiesta; decine di libri. e migliaia di pagine scritte. Nel 2024 si ricorderanno 46 anni dal rapimento di Aldo Moro in via Fani il 16 marzo del 1978, con l’assassinio degli uomini della scorta, e dall’uccisione dello stesso Presidente della Democrazia Cristiana, avvenuto 55 giorni dopo, il 9 maggio, con il ritrovamento del suo cadavere nel baule della Renault 4 rossa in via Caetani a Roma. In Italia, in ogni occasione nella quale si ripercorrono quei terribili giorni che segnarono (e segnano ancor oggi) la storia della nostra Repubblica, si apre una pagina non pianamente nota o, più spesso, non pienamente limpida, su quanto accadde in quelle settimane. Intrecci di intrighi internazionali, l’avverarsi di predizioni, documenti registrati, poi spariti, poi forse ricomparsi ma manomessi. Testimoni che ricordano, poi dimenticano, poi si sbagliano, o non vengono considerati. Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza; servizi segreti italiani e stranieri, più o meno ufficiali, più o meno deviati. Depistaggi, indirizzi di indagine precisi ma non approfonditi; interi filoni d’inchiesta non seguiti. C’è di tutto, nel leggere le carte, disponibili anche in rete, per chi ha la pazienza di volerle leggere e voglia cercare di capire. 46 anni sono tanti, però: molti dei protagonisti, anche politici, di quei giorni non ci sono più. Ma ogni tanto, non solo negli anniversari, il caso Moro viene rimesso all’attenzione dell’opinione pubblica. Ultima in ordine di tempo, l’inchiesta giornalistica di Report andata in onda la scorsa domenica 7 gennaio; ai colleghi va riconosciuta la volontà di non demordere nella ricerca della verità. Anche se la stessa inchiesta presenta diverse omissioni su fatti già noti, che avrebbero potuto aiutare i telespettatori a completare il quadro delle informazioni su quel terribile periodo nel nostro Paese. Nel tentativo di districare la matassa dei molti fili che compongono questo caso, l’inchiesta di Report si sofferma, mettendolo in evidenza, su di un particolare preciso ossia l’avvenuto avviso presso gli uffici del Viminale all’allora Ministro dell’Interno Cossiga della morte di Moro, comunicata tra le 10.00 e le 11.00 del 9 maggio, ben prima della telefonata del brigatista Morucci al professor Tritto, collaboratore del Presidente della DC, con la quale alle 12.15 veniva avvisato del luogo, via Caetani appunto, dove il corpo di Moro si sarebbe potuto ritrovare. Unico testimone di questa comunicazione, perché presente al Viminale nell’ufficio di Cossiga, Claudio Signorile, all’epoca vice segretario del Partito Socialista Italiano. Che di questo particolare fece menzione, per sua stessa ammissione, già nel 1980 alla prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, nel periodo di presidenza Dante Schietroma. Ma della comunicazione durante il caffè al Viminale, con Cossiga Signorile parlò anche nel corso della sua lunga audizione (che durò tre ore) alla Commissione parlamentare d’inchiesta a presidenza Fioroni, come è riportato nella seconda relazione della Commissione, approvata il 20 dicembre 2016: “Signorile ha confermato, come aveva già dichiarato nella sua audizione del 13 novembre 1980, che tale comunicazione avvenne non più tardi delle 11, cioè oltre un’ora prima della telefonata con cui Morucci comunicò al professor Tritto il luogo in cui si trovava il corpo di Moro. (Doc. XXIII, n.23 pagg. 43-44). Signorile, che abbiamo sentito in un lungo amichevole colloquio per fare chiarezza sulle dichiarazioni riportate negli ultimi giorni, dichiara all’Avanti! della Domenica «di essere convinto che l’invito di Cossiga fosse funzionale a dare una sorta di “via libera” alla definizione dell’accordo con i brigatisti per la liberazione di Moro in cambio della messa in libertà di un detenuto terrorista», ammantando il tutto come un’azione umanitaria. E Signorile non nasconde, durante l’audizione, come si può leggere dallo stenografico della Commissione, che la sua impressione fu in realtà quella di essere stato convocato apposta da Cossiga, perché potesse ascoltare quel messaggio. Durante il lungo e disteso colloquio, chiedo a Claudio Signorile se con Cossiga, negli anni successivi, lui fosse tornato sulla questione di quell’invito. Sa di poter essere franco, perché con noi dell’Avanti! si sente un po’ a casa. E la risposta è secca: «No, mai. Non ci fu più occasione di ripercorrere con Francesco gli eventi di quell’incontro». Tutto è agli atti, già dal 1980, motivo per il quale non si comprende come possa Luigi Zanda, all’epoca dei fatti portavoce di Cossiga, dichiarare oggi a Repubblica che il racconto di Signorile su quanto successo al Viminale sia inverosimile, considerando peraltro che non è stato mai smentito neanche dallo stesso Cossiga. È comprensibile che Zanda, non presente a quell’incontro, in qualche modo pensi di proteggere la figura di Cossiga. “Ma Cossiga si difende anche da solo – dice Signorile -; sono convinto che abbia fatto tutto quello che riteneva giusto in quei difficili momenti, anche se noi socialisti avevamo un’idea diversa, quella cioè che si dovesse trattare per liberale Moro. A tutti i costi.” L’inchiesta di Report non porta quindi nessuna novità. Ma omette invece molti aspetti legati al ruolo che ebbe il Partito Socialista, a partire dal suo segretario Bettino Craxi, nel tentativo solitario di riportare Moro ai suoi affetti; una serie di interventi decisi come una linea politica e di condotta umanitaria assai chiari, ribaditi e raccontati dai dirigenti del PSI ad ogni commissione d’inchiesta ed anche ai magistrati inquirenti. Tutto disponibile per chi volesse leggere gli atti. A cominciare dal fatto che si raggiunsero le Br attraverso i capi di Autonomia Operaia romana. E tutto il filone mediorientale, nel tentativo di convincere i palestinesi a far desistere le Br dall’uccisione di Moro. Craxi avrebbe potuto illustrare con completezza, ancora una volta, quali furono i passaggi salienti del tentativo socialista di cogliere la disponibilità di almeno una parte delle Brigate Rosse alla liberazione di Moro. Ma, nonostante la trasferta della Commissione Stragi (1997-2001) presieduta da Giovanni Pellegrino ad Hammamet, qualche anno prima della morte di Craxi, fosse già stata organizzata, tutto venne fermato: non si poteva andare ad audire un latitante, come disse il Presidente della Repubblica Scalfaro. Ai socialisti al tempo si deve l’intuizione di poter individuare un percorso che consentisse, attraverso contatti con esponenti di gruppi vicini alle Brigate Rosse, di comprendere appieno le dinamiche interne del gruppo armato, così da insinuarsi per cercare di ottenere la salvezza di Moro. Questo in un contesto politico generale nel quale, invece, la linea prevalente era quella di non svolgere alcuna trattativa con i terroristi per arrivare alla liberazione del politico democristiano. Posizione ferma anche dei comunisti, come ricorda Signorile, forse perché vincolati da un legame poco trasparente e sicuramente mai pienamente chiarito con frange di una estrema sinistra extraparlamentare che rappresentò la genesi della lotta armata. Così mentre da un lato Craxi e i socialisti tentavano in ogni modo di raggiungere l’obiettivo della liberazione, altri remavano contro, ponendo vincoli e paletti. Solo nei primi giorni del maggio 1978 questo muro di intransigenza mostrò le sue prime crepe, con la disponibilità di Fanfani di aprire un dialogo con i terroristi per ottenere la liberazione di Moro. Ma la risposta a tale (vera o presunta) disponibilità la si ebbe la mattina del 9 maggio, in via Caetani.