di Andrea Follini
Tutti speravano che l’inizio del Ramadan, mese sacro per i musulmani, il 10 marzo, segnasse la sigla di un accordo tra il governo israeliano ed Hamas che consentisse un cessate il fuoco, almeno temporaneo, a fini umanitari, coincidente con la liberazione degli ostaggi israeliani ancora in mano al gruppo terroristico dallo scorso 7 ottobre, e la possibilità di ampliare l’accesso degli aiuti nella Striscia di Gaza, in favore della popolazione palestinese la cui condizione ormai è ben oltre lo stremo. Ma l’accordo non è arrivato, nonostante i solleciti giunti da ogni parte del mondo, occidentale ed arabo, alle forze in campo perché fosse portato un po’ di sollievo ai palestinesi e di serenità alle famiglie dei rapiti. Forte in tal senso si è alzata anche la voce del presidente americano Biden, che anche durante il recente discorso sullo stato dell’Unione, non ha mancato di sottolineare come Netanyahu abbia sprecato la linea di credito che gli Usa gli avevano riservato sui fatti di Gaza, dimostrando di non lavorare a favore del suo Paese. I negoziati per arrivare ad un cessate il fuoco sono in corso da mesi e non termineranno nemmeno durante il Ramadan, anche se un accordo che fosse coinciso con l’inizio del mese sacro avrebbe avuto tutt’altro valore. Come racconta il quotidiano israeliano Haaretz, fonti tra i negoziatori riportano che i colloqui stanno continuando, seppur lentamente. Non mancano gli incontri tra il capo del Mossad David Barnea ed il direttore della Cia William Burns, a testimoniare quanto per gli Stati Uniti sia importante riportare la calma nella zona e soprattutto ricondurre l’azione di Israele nel contesto del diritto internazionale. I punti di maggiore frizione tra le parti sembrano essere la richiesta insoddisfatta di Israele della lista degli ostaggi ancora vivi ed in mano ai terroristi di Hamas da un lato e dall’altro quanti, tra i detenuti di Hamas nelle carceri israeliane, Netanyahu sia disposto a liberare. Il proseguo del conflitto non può che far aumentare le sofferenze del popolo palestinese, schiacciato da un lato dagli indiscriminati attacchi israeliani e dell’altro dall’intransigenza di Hamas, che di fatto lo utilizza come merce di scambio per i suoi interessi politici. Sarebbe nell’interesse dello stesso gruppo terroristico che ad un accordo si giungesse durante il Ramadan, anche prevedendo il rientro nella zona nord della Striscia di tutte quelle persone che erano state costrette a spostarsi nella parte meridionale dei territori, verso il confine con l’Egitto, azione che fungerebbe da disinnesco di una tensione che in quell’area ha ormai raggiunto livelli inimmaginabili, con la popolazione senza più nulla e senza più nessun luogo dove andare, dove ripararsi. Al valico di Rafah, in territorio egiziano, sono fermi da mesi centinaia di camion carichi di aiuti, come ha potuto constatare anche la delegazione di parlamentari italiani che si è recata sul posto, richiamando la necessità di un cessate il fuoco immediato. Camion, quelli fermi a Rafah con gli aiuti umanitari, che avrebbero potuto di certo ridurre il numero dei morti civili palestinesi che ha già raggiunto la vergognosa cifra di trentaduemila persone. Aiuti che vengono bloccati, a volte per mesi, non solo dalle forse di difesa israeliane, ma anche dalle proteste di alcuni cittadini israeliani ortodossi, che con le loro manifestazioni ai valichi, non consentono il transito di quei pochi camion che vengono autorizzati al transito, senza che in questo contesto l’esercito israeliano a guardia dei confini muova un dito. Sarebbe importante il raggiungimento di un accordo in questo mese perché il Ramadan non è solo il periodo del digiuno dall’alba al tramonto e della preghiera, osservato dai musulmani, ma riveste per quel popolo un alto valore sociale legato allo stare insieme, alla condivisione ed alle attività caritatevoli, che com’è di tutta evidenza, non sono possibili in una condizione di guerra come quella che stanno vivendo. Non si esclude inoltre che Israele attui in questo periodo ulteriori restrizioni, specie a Gerusalemme, allo svolgersi delle funzioni previste nelle moschee, con la conseguenza che ciò alimenterebbe le tensioni, fornendo un assist ai terroristi di Hamas, considerando che è sufficiente ogni più piccolo innesco di nervosismo per far deflagrare ulteriormente la situazione, anche fuori da Gaza. La tensione è particolarmente alta nell’intera area mediorientale, con il timore che la prosecuzione del conflitto a Gaza durante il mese sacro del Ramadan possa aumentare il rischio che il conflitto si ampli ad altre zone calde, a cominciare dalla Cisgiordania. In Israele intanto continua la protesta nei confronti del governo Netanyahu, con ripetute manifestazioni di piazza ed i cittadini divisi tra quanti vorrebbero subito elezioni anticipate e quanti invece sono contrari. Secondo un recente sondaggio pubblicato dalla stampa israeliana e ripreso dalla radiotelevisione svizzera, circa il 51% degli israeliani vorrebbe andare alle urne prima del previsto mentre il 39% vi si oppone. Così come le continue morti tra i soldati di Tel Aviv impegnati nella guerra a Gaza, unite al timore per la sorte degli ostaggi in mano ad Hamas, non fanno che aumentare la disapprovazione verso il governo.