Ognuno per sé e l’Europa per tutti

di Alessandro Silvestri

E fu così che toccò all’uomo di Macron nel “governo” europeo, aprire le danze per la campagna elettorale 2024. Un appuntamento decisivo e, c’è da giurarci, tra i più scoppiettanti, impegnativi e persino rudi, da quando esiste la Ue. Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno ed i servizi, già ministro di de Villepin, ha infatti rotto il fair play che fin qui aveva caratterizzato i rapporti tra i membri della Commissione, attaccando direttamente il partito di maggioranza relativa, il Ppe, colpevole di non aver sostenuto adeguatamente Ursula Von der Leyen, alla presidenza-bis della Commissione Europea. Lo fa attraverso un post su X che immediatamente fa il giro delle cancellerie europee, suscitando un tourbillon di reazioni. A partire proprio dai Popolari. In sostanza c’è la messa in discussione dei venti anni di ininterrotta presidenza del PPE, cogliendo al balzo la frattura che si è aperta durante la votazione d’investitura: “Malgrado le sue qualità, i delegati del suo partito, riuniti a Bucarest, su 801 aventi diritto, soltanto in 499 hanno votato, e di questi 400 favorevoli alla Von der Leyen, 89 contrari e 10 astenuti. È possibile riaffidare nuovamente ai popolari la guida della Ue, quando nemmeno loro stessi sembrano crederci?”. Dietro le quinte le manovre di Emmanuel Macron per risollevare le quotazioni della sua presidenza e di Renew Europe che punta a rosicchiare voti moderati, sollevando (assieme ai socialisti che hanno da poche settimane scelto a Roma il proprio candidato di punta, Nicolas Schmit) la questione di una alternanza al predominio dei democristiani europei. Ed è così chiaro e plateale che lo stesso Matteo Renzi fa eco a Breton dal palco della “Leopolda 12”, sottolineando che in caso di sua elezione a Strasburgo, non voterà la Von der Leyen. Uno spaccato che va di pari passo con l’iniziativa di Macron, in viaggio nei paesi dell’Europa orientale, anche rispetto alla questione Ucraina, in contrapposizione alla Germania di Scholz, giudicata troppo attendista nel sostegno militare a Kiev. Attivismo che sembra intanto aver trovato una sponda a Varsavia da dove è arrivata la conferma, proprio nel giorno della cerimonia di adesione della Svezia alla Nato, che personale militare dell’alleanza atlantica è già presente sul suolo ucraino. Notizia trapelata durante la conferenza stampa del ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski riportata da Sky News. “Vorrei ringraziare gli ambasciatori di quei Paesi che hanno corso questo rischio” ha detto spiegando di “non poter rivelare” quali siano i Paesi in questione. Intanto durante tutta la settimana, ha tenuto banco il dibattito sulle parole di Papa Francesco che ha indicato a Zelensky la strada della “bandiera bianca” per riaprire i negoziati. Ed è occorso il successivo intervento chiarificatore del Cardinal Parolin per stemperare le polemiche: “Mosca cessi il fuoco, poi la pace”. “La resa non significa pace, dobbiamo continuare a sostenere l’Ucraina”, ha ribadito il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, nel corso dell’incontro con il premier svedese Ulf Kristersson. “La questione della pace si trova nelle mani di un solo uomo, Putin. Siamo a favore della pace, ma a una pace che sia giusta e che sia formulata secondo le condizioni della vittima di questa guerra”, ha affermato anche il portavoce della Commissione europea, Peter Stano. Continuano ancora le polemiche, proprio nella settimana del voto Russo, sul caso Navalny, che hanno trovato pressoché unanime e compatto tutto il mondo democratico, non solo occidentale. Ciò nonostante, aumentano i testimonial putinisti di casa nostra, come lo street artist Jorit, che è accorso a Mosca a spiegarci quanto sia umano Vladimir Putin. E nemmeno Salvini, nonostante le reiterate batoste elettorali (Sardegna -7,7% e Abruzzo -20%) e la collezione di figuracce in Europa, si è deciso ad annullare il patto di cooperazione con “Russia Unita” rinnovato nel 2022 (ad invasione dell’Ucraina in atto). Una sorta di von Ribbentrop/Molotov farsesco e pedestre. Meno male che c’è il Pse e tal Mario Draghi, riserva d’onore ormai di dimensioni internazionali, che ha rilanciato recentemente alla riunione dell’Ecofin in Belgio, la necessità di proseguire sulla strada degli investimenti europei sia pubblici che privati; di riportare nel continente gli asset strategici della produzione industriale; della necessità di fare un passo in avanti verso una Europa federale capace di stare al passo con gli squilibri della globalizzazione; di creare alternative alla dipendenza energetica dei Paesi Ue dalla Russia; di giungere a politiche fiscali ed economiche comuni. Insomma, una potente iniezione di politiche neo-keynesiane di cui l’Europa, attesa al cambio di marcia, dovrà tener di conto. Tra poche settimane saranno 190 anni dalla nascita dell’utopia mazziniana di una “Giovine Europa”. Un evento da ricordare e da unire idealmente al centenario dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Due visionari italiani che si batterono per la libertà e l’emancipazione dei popoli d’Europa.

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