Rafah, la porta dell’inferno

di Andrea Follini

«È impressionante vedere questa distesa enorme di camion, migliaia, carichi di aiuti di ogni genere, fermi parcheggiati, mentre a pochi chilometri da qui ci sono più di un milione di persone che rischiano di morire di fame o per una ferita non curata – dice con voce provata Rachele Scarpa, deputato del Partito Democratico, che assieme ad altri quattordici parlamentari italiani ha raggiunto la mattina del 5 marzo il valico di Rafah, ai confini tra Egitto e Gaza – camion che non entrano nella Striscia perché fermati per i controlli dai militari di Tel Aviv, o anche da civili israeliani che protestano e bloccano l’accesso degli aiuti, come sta succedendo da tempo al valico di Kerem Shalom.» Raggiungiamo Rachele Scarpa al telefono via Telegram, perché è l’unico strumento con il quale si riesce, con non poche difficoltà, a comunicare da quei luoghi. L’avevamo sentita anche il giorno precedente, mentre in bus si stava trasferendo da il Cairo ad Al Arish, cittadina un tempo turistica, ora desolato punto di concentramento degli aiuti diretti verso il valico di Rafah che dista 45 chilometri. Con lei in questa missione in Medio Oriente ci sono Stefania Ascari, Carmela Auriemma, Dario Carotenuto e Arnaldo Lomuti del Movimento Cinque Stelle; Arturo Scotto, Sara Ferrari, Ouidad Bakkali, Laura Boldrini, Alessandro Zan ed Andrea Orlando del Partito Democratico; Valentina Ghio, Nicola Fratoianni, Francesco Mari e Angelo Bonelli per Alleanza Verdi Sinistra. Tutti parlamentari di opposizione, membri dell’intergruppo parlamentare per la pace tra Israele e la Palestina, che ha chiesto al governo italiano di fare pressione presso Israele per un rapido cessate il fuoco umanitario, al fine di consentire alle Ong ed alle agenzie umanitarie di portare gli aiuti necessari alla popolazione palestinese ormai allo stremo. «La motivazione principale di questa missione – continua Rachele Scarpa – è portare la nostra presenza fisica come segnale forte per lanciare alcuni messaggi. Il primo tra tutti è il cessate il fuoco, come condizione necessaria per qualsiasi operazione umanitaria che si possa definire degna di questo nome e anche per la liberazione degli ostaggi israeliani. È una cosa che ci stanno evidenziando tutte le organizzazioni e gli interlocutori con i quali stiamo parlando da quando siamo arrivati in Egitto ma anche prima di partire, dall’Italia: è impossibile ma anche quasi inutile continuare a mandare aiuti che poi vengono bloccati o comunque rimangono sotto alle bombe o sotto al fuoco dei cecchini. Lo scopo è anche quello di lanciare un messaggio rispetto ad un Governo inerte, che nonostante sia stata approvata la mozione del Pd alla Camera che aveva al primo punto il cessate il fuoco, passata con l’astensione della maggioranza, non stiamo vedendo alcun seguito concreto; un impegno che è stato messo nelle mani del governo, sul quale però lo stesso governo non sta facendo davvero nulla. Quindi vogliamo provare a muoverci in controtendenza a questa inerzia e ad esserci fisicamente, essere presenti per fare da cassa di risonanza ai messaggi, al lavoro delle Ong e delle agenzie dell’Onu che in questo momento stanno organizzando la solidarietà senza sostegno di nessuno, anzi con grossi problemi di accesso, alcune con grossi problemi di finanziamento, penso all’Unrwa, che ha visto l’Italia assieme ad altri sedici Paesi, interrompere i fondi a questa che di fatto è la spina dorsale di ogni tipo di assistenza per i palestinesi. Stiamo quindi, come parlamentari, cercando di amplificare il più possibile questi messaggi: sblocco ed aumento degli aiuti umanitari, cessate il fuoco, liberazione degli ostaggi, sostegno ed agibilità per le organizzazioni internazionali e ripristino dei fondi ad Unrwa. Questi sono gli obiettivi.» Sull’inerzia del governo Meloni punta il dito anche Arturo Scotto, sul suo profilo Facebook: «Il cessate il fuoco è la condizione fondamentale per evitare il diffondersi di malattie oltre che la crescita ulteriori di morti. Lo chiediamo da qui, lo chiediamo da Rafah. Giorgia Meloni batta un colpo e dia seguito a quanto stabilito da un voto del Parlamento italiano.» La situazione all’interno della Striscia, intanto, è sempre più catastrofica e al tavolo per un accordo tra Hamas ed Israele, promosso da Egitto e Qatar, le posizioni non sembrano essere così concilianti da raggiungere un’intesa prima dell’inizio del mese sacro del Ramadan, il 10 marzo, come vorrebbero gli Stati Uniti. Ma mentre da un lato si tenta di discutere, a Gaza si continua a morire. « Oggi il rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci ha riferito che non hanno più aggettivi per descrivere la catastrofe in corso – continua Scarpa –. Tutti parlano di una situazione di crisi umanitaria senza precedenti; cose che non hanno mai visto ed una enormità, che forse i numeri non riescono a tramettere adeguatamente. Infatti ci hanno chiesto di riportare sempre i numeri perché sono importanti ma anche di non deumanizzare il fatto che dietro a questi numeri ci sono delle storie. In questo momento ci sono più di trentamila morti, settemila dispersi e settantamila feriti. Questi numeri non possono che crescere ed una stima porta, da qui a sei mesi, il numero dei morti ad ulteriori ottantacinquemila se non ci sarà un cessate il fuoco. Il quindici per cento dei bimbi di Gaza è sotto la soglia minima per definire la malnutrizione ed in questo momento non sono solo le bombe che ammazzano le persone ma sono anche le malattie, l’inedia, la fame, le ferite non curate. Insomma c’è una situazione di completo collasso sanitario. Ci sono nella striscia dodici ospedali che funzionano su trentasei esistenti prima della ripresa del conflitto. Questi dodici non sono ospedali come li intendiamo noi, ma strutture solo parzialmente funzionanti. E nonostante in guerra sia prassi non attaccare le strutture sanitarie, queste sono state colpite almeno trecentosettanta volte dal 7 ottobre. Quindi una situazione veramente impressionante. Ed è molto strano farselo dire di persona da chi ci ha lavorato, da chi è stato li personalmente. Sono immagini che, almeno per me, campeggiano ogni giorno sulla home dei miei social e penso anche di tanti miei coetanei, tanto è vero che scendiamo in piazza, però sentire di questa situazione in un tavolo istituzionale ci da ancora più la forma di quale sia il disastro che abbiamo davanti ». Stessa sensazione raccogliamo da Nicola Fratoianni, che attraverso il suo profilo Istagram tiene i contatti con l’Italia. Alle spalle ha il valico di Rafah, «la porta dell’inferno» – dice. «A Gaza si nuore di fame. Letteralmente. Si muore per mancanza di cibo, di farmaci, di igiene, di carburante per far funzionare gli ospedali. Verrebbe naturale pensare che servono gli aiuti umanitari. Invece gli aiuti paradossalmente ci sono, ma non possono entrare a Gaza, dove ce n’è bisogno. Senza un cessate il fuoco, senza una tregua duratura, non potranno entrare gli aiuti di cui ci sarebbe bisogno, e si continuerà a morire di stenti e di epidemie». Sempre via Telegram, Rachele Scarpa continua a raccontarci, stavolta direttamente da Rafha, le sue impressioni. La voce è più volte interrotta, perché le emozioni prendono il sopravvento. «Siamo stati questa mattina in partenza da Al Arish verso il valico di Rafah, dove siamo arrivati a circa metà mattinata. Guarda, l’impressione è forte, anche solo la consapevolezza che a poco più di un chilometro da noi si sta consumando l’inferno in terra, ha un impatto molto forte. Siamo stati un po’ al valico dove abbiamo fatto una piccola manifestazione, con qualche cartello, per chiedere il cessate il fuoco e abbiamo rilasciato dichiarazioni a tutti i media presenti, denunciando ancora tutte le cose di cui ti ho parlato ieri. Successivamente ci siamo recati nel grande parcheggio dove stazionano le migliaia di camion di aiuti che sono in attesa di entrare; camion che hanno già passato i controlli ma che per una serie di ragioni, alcune logistiche altre di impedimento da parte delle autorità militari israeliane, o addirittura dai civili israeliani che protestano e bloccano spesso il valico di Kerem Shalom, non possono entrare. Gli autisti di quei camion ci hanno detto che alcuni di loro sono li da due mesi ad attendere di entrare. È impressionante vedere questa distesa enorme di mezzi carichi di aiuti di ogni genere, fermi parcheggiati, mentre e pochi chilometri ci sono più di un milione di persone che rischiano di morire di fame o per una ferita non curata, ecc. Ora ci stiamo recando nella zona dove vengono custoditi i camion di aiuti che non passano i controlli e quindi trasportano merci che non entreranno mai a Gaza. Vedremo quali sono i tipi di beni che non vengono consentiti all’interno della striscia». E di questi “beni pericolosi”, cui viene negato l’accesso a Gaza, parla anche Andrea Orlando, che abbiamo contattato: «L’esercito israeliano blocca questi camion, li rimanda indietro perché il ritengono un rischio. Ma trasportano in alcuni casi incubatrici, bombole dell’ossigeno, ambulanze; in altri casi anche generi alimentari, difficilmente utilizzabili in altro modo. Quando un camion contiene qualcuno di questi beni che vengono ritenuti pericolosi, viene mandato in questo parcheggio, ma questo significa che deve ricominciare la coda daccapo e la coda, come abbiamo visto, può durare anche un mese e mezzo o due mesi.» È l’arma della fame, che come denunciano da tempo le Ong ma anche la Mezza Luna Rossa, è utilizzata in questo conflitto senza alcuna remora. Fame che a Gaza spinge a mangiare tutto ciò che si recupera, compreso il cibo per animali, anche se scaduto, ed a sentirsi in colpa se l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento. Come racconta piangendo Youssef, l’accompagnatore della delegazione. Ha un fratello a Gaza, che è riuscito sentire al telefono; gli riferiva di sentirsi sconfitto perché nella tenda in cui vive con 57 altre persone, hanno diviso un pezzo di pane e lui non è riuscito a serbarne un pezzo per i suoi figli…questa è Gaza oggi.

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