Per tentare di salvare l’atlantismo gli Usa mandano Blinken in M.O.

di Andrea Follini

La posta in gioco non è affatto indifferente. Gli Stati Uniti hanno sempre dichiarato di essersi assunti il compito di esportare la democrazia nel mondo, di rendere praticabili libere elezioni laddove ciò non fosse consentito da autoritarismi violenti e dove il popolo avesse chiesto supporto. Per anni questa è stata la via maestra seguita dai presidenti americani, con il beneplacito del Senato statunitense, a cui compete l’indirizzo della politica estera americana. È stato il “regime change” dei tempi di Bush, o “l’interventismo in ossequio ai valori occidentali” voluto da Clinton. Solo con Trump l’idea di una presenza americana per mediare, o dove non possibile per intervenire, anche con supporto militare, nelle situazioni di forte tensione ove regimi antidemocratici e autoritari minavano la convivenza del proprio popolo, questa impostazione ha subìto una importante inversione di marcia, tanta era la volontà politica in quel momento di guardare solo all’interesse interno degli States, in fregio ad un esasperata tendenza nazionalista. La crisi russo-ucraina ha riportato in primo piano la necessità per gli USA di riprendere attivamente posizione; i cospicui stanziamenti economici in soldi ed armi, regolarmente approvati dal Congresso, non sono stati poca cosa in questo contesto e non sono certo destinati ad interrompersi, nonostante il Medio Oriente si sia ora, per così dire, preso la scena, spostando i riflettori dell’informazione più a sud. Ora, per ragioni principalmente geopolitiche, ma certo anche questioni di economia, gli Stati Uniti si trovano nella necessità di non stare a guardare quanto sta succedendo tra Israele e Palestina. Nemmeno l’opinione pubblica interna, dove l’influenza delle lobby ebraiche non è certo irrilevante, lo consentirebbe. Lo scacchiere mediorientale è troppo importante; l’unica democrazia nell’area, Israele appunto, rappresenta un baluardo della cultura occidentale e quindi il significato della sua protezione riveste un significato molto più alto del semplice soccorso ad un alleato. Dietro quel lembo di terra, messo a disposizione del popolo ebraico non certo con difficoltà sconosciute nei primi anni del secondo dopoguerra, c’è molto di più: il tentativo di ribadire la bontà di una scelta, voluta dal mondo occidentale come riscatto per non aver saputo impedire l’olocausto, nonostante le conseguenze che tale scelta avrebbe ingenerato. Con il complicarsi delle relazioni tra israeliani e palestinesi nei decenni scorsi, con le guerre, gli attacchi, i rapimenti, i dirottamenti aerei, i razzi, la ribellione terroristica, quella terra è divenuta una polveriera incontrollata. E forse incontrollabile. Quale modello potrebbe essere esportabile, per gli Stati Uniti d’America, in un contesto così complicato? Quali azioni potrebbero essere messe in campo per arrivare dapprima ad un cessate il fuoco, e poi ad una stabilizzazione dello scacchiere? Ad un anno esatto dalle prossime presidenziali, gli Stati Uniti non sembrano intenzionati ad invischiarsi in una giungla di queste dimensioni, dall’esito per nulla scontato e fortemente incerto. Ma, come detto, in ballo c’è di più della risoluzione di un conflitto. Deve aver pensato questo anche Joe Biden, decidendo per il suo viaggio di solidarietà a Gerusalemme ed inviando il suo Segretario di Stato Antony Blinken a colloquio con i capi di stato dell’intera area, con l’incarico di tessere una rete di connessioni capace di garantire un cessate il fuoco, l’eliminazione del terrorismo di Hamas e l’apertura di una nuova road map per la pacificazione. Ma il medio oriente non è terra di preoccupazione solo per gli USA; Cina e Russia non vogliono certo perdere la loro influenza su quei territori, e non hanno perso tempo per dimostrare la loro vicinanza al popolo arabo palestinese, stretto tra la risposta armata israeliana ed il terrore di Hamas, tentando di conquistare un ruolo di mediatori moderati; cosa che evidentemente l’amministrazione Biden ha visto con preoccupazione. Mentre le vittime civili palestinesi hanno paurosamente superato le diecimila unità in questo mese di conflitto, il nord della striscia di Gaza si sta svuotando, conseguenza dell’operazione israeliana di accerchiamento delle postazioni strategiche di Hamas, il Ministro ultra messianico Amichai Eliyahu invoca follemente l’atomica, restano nelle mani di Hamas ancora troppi uomini, donne e bambini israeliani rapiti il 7 ottobre e continuano a morire militari di Tel Aviv, il mondo cerca una soluzione che non c’è, legata ad una guerra dalla quale tutti vorrebbero uscire vincitori, senza ricordare cosa sono stati gli ultimi settant’anni. Ed in questo contesto appare troppo debole, seppur necessario, anche il tentativo diplomatico di Blinken, aggravato dall’inconsistenza dell’interlocutore moderato del popolo palestinese, apparentemente oramai non più in grado di reggere la guida del suo popolo.

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