di Stefano Amoroso
La proposta di elezione diretta del Presidente del Consiglio, che resterebbe in carica per cinque anni salvo sfiducia, è la “madre di tutte le riforme”, secondo le parole di Giorgia Meloni. Viene da chiedersi perché porre una così grande enfasi su una proposta di riforma costituzionale che non cambia la natura parlamentare della nostra Repubblica, non modifica in maniera significativa i poteri in capo ai vari soggetti protagonisti del governo del Paese (Parlamento, appunto, ma anche Presidente della Repubblica e Governo) ma, nello stesso tempo, crea una gran confusione e presenta non pochi problemi attuativi. Il pasticcio meloniano non è certo né il primo, né il più importante progetto di riforma della Costituzione italiana in nome della governabilità e della stabilità delle maggioranze. Dopo alcune ipotesi di riforma costituzionale risalenti agli anni Settanta, sono stati i decenni ’80 e ’90 quelli nei quali si sono concentrati gli sforzi maggiori di modifica della Costituzione del 1948. In quel ventennio Camera e Senato hanno unito le forze in tre diverse occasioni, creando una commissione bicamerale per la riforma costituzionale. Nel 1983 nacque la prima bicamerale, presieduta dal deputato Aldo Bozzi. I lavori, che coinvolsero quaranta parlamentari di entrambi i rami, andarono avanti per due anni. Nel 1985, così, fu presentata una proposta che prevedeva la revisione di 44 articoli della Costituzione. Nonostante i buoni propositi, però, la bicamerale non aveva poteri referenti, né di collegamento con le assemblee parlamentari o con le commissioni: tutto fu affidato alla buona volontà dei vari gruppi politici e, tra veti incrociati, emendamenti e fronde varie, non si arrivò a nessuna conclusione. Il secondo tentativo risale al 1992: la bicamerale fu presieduta prima dall’ex segretario DC, Ciriaco De Mita, e poi dalla ex Presidente della Camera, la comunista Nilde Iotti: sessanta parlamentari, in piena tempesta di Tangentopoli, furono coinvolti nei lavori che durarono due anni. La proposta finale prevedeva la riforma di 22 articoli e l’idea di introdurre un Governo “neoparlamentare”, riformando vari aspetti del potere esecutivo. Presentata in Parlamento nel 1994, la discussione fu interrotta dallo scioglimento delle Camere per la fine anticipata della legislatura. La terza bicamerale fu avviata nel 1997, sotto la presidenza D’Alema, e coinvolse settanta parlamentari. Fu la bicamerale del cosiddetto “patto della crostata” tra D’Alema, Marini, Fini e Berlusconi. Passata l’euforia del momento e digerita la crostata, però, riemersero i contrasti tra le forze politiche e la proposta di revisione fu ufficialmente abbandonata, non senza polemiche, nel 1998. Da allora, bisognò aspettare diciotto anni per avere un nuovo tentativo di riforma costituzionale. Nel 2016 fu il Governo di Matteo Renzi ad andare molto vicino all’approvazione di una compiuta riforma costituzionale. La cosiddetta “riforma Boschi”, dal nome della ministra renziana Maria Elena Boschi, era incentrata sulla modifica del ruolo del Senato, che doveva diventare essenzialmente un organo di rappresentanza regionale, e sulla modifica del processo legislativo: fare le leggi sarebbe diventato molto più semplice ed avrebbe aumentato la stabilità del Governo centrale. Inoltre, era prevista l’abolizione del CNEL, la riforma delle province e l’attribuzione di maggiori poteri ai Comuni. In concomitanza con la riforma costituzionale, era prevista l’introduzione di una legge elettorale (il cosiddetto “Italicum”) che avrebbe finalmente reso più stabili le maggioranze, assegnando un premio di maggioranza del 55% alla coalizione che avesse vinto le elezioni. Pur superando, per la prima volta, l’esame delle Camere (quattro passaggi tra Camera e Senato), la proposta di riforma costituzionale fu poi bocciata dal referendum popolare tenutosi a dicembre del 2016. Più fortunata fu la riforma proposta dai Cinquestelle nella XVIII legislatura (2018 – 2022): la riduzione del numero dei parlamentari, che è da sempre uno dei principali cavalli di battaglia dei grillini, fu prima approvata dalle Camere e poi anche dai cittadini, che disertarono le urne nel seguente referendum abrogativo. La riforma, tuttavia, non giovò al Governo Conte 2, che poi crollò per iniziativa di Matteo Renzi. Si aprì, così, la strada al Governo tecnico di Mario Draghi. La storia delle riforme costituzionali italiane, dunque, è piena di fallimenti e retromarce. Finora nessuno si è giocato la carriera politica a causa delle riforme costituzionali, ma non ne ha tratto neanche grande vantaggio. Neppure nei (rari) casi di successo. Che accadrà alla riforma tanto cara all’attuale maggioranza? Ai posteri l’ardua sentenza.