di Lorenzo Cinquepalmi e Luciano Pilotti*
Torna a farsi sentire la voce di Draghi. Lo fa affrontando la geopolitica in modo ampio, nella prospettiva del ruolo che l’Europa deve necessariamente assumere nella scena mondiale. La scelta dell’occasione non è casuale: la tribuna è quella della National Association for Business Economics di Washington, che gli conferisce un premio alla carriera. Parla, dunque, d’Europa in casa americana, e lo fa indicando la via degli Stati Uniti d’Europa. Nel suo discorso denuncia l’aumento delle diseguaglianze causato dalla globalizzazione in assenza di regole internazionali e di un sistema politico in grado di contenere gli effetti negativi dell’economia finanziaria senza freni. Un sistema politico che, per dimensione, autorevolezza, ruolo geopolitico, sia in grado di condizionare in concreto le composite ma convergenti strategie predatorie del capitalismo finanziario globale. In questo modo, individua in un ruolo più autorevole e incisivo dell’Europa lo strumento per compensare la naturale tendenza dei poteri economici a esasperare lo sfruttamento dei popoli, esponenzialmente amplificata nei suoi effetti proprio dalla globalizzazione. Lo scenario auspicabile che si ricava dalle parole dell’ex premier italiano vede un’Europa sempre più integrata, con una politica fiscale omogenea, una difesa e una politica estera comuni, una direzione strategica continentale su economia, welfare, demografia, ambiente, energia e digitalizzazione. In poche parole, un’Europa federale, capace di equilibrare al suo interno le diseguaglianze tra i diversi territori e tra i diversi strati sociali, implementando e rendendo omogeneo il suo peculiare modello di stato sociale, e capace di affrontare in modo strategico i temi legati alle risorse strategiche, materiali e immateriali, imprimendo alle ineludibili transizioni in corso, dalla sostenibilità ambientale e sociale al digitale, un’impronta coerente con il modello sociale europeo, che è e rimane un modello socialdemocratico. L’entità politica europea che si legge tra le righe del discorso di Draghi è fatta di debito comune, con il quale finanziare politiche comuni, dalla difesa al ritorno alla manifattura, e di fiscalità comune, per eliminare i troppi interstizi in cui si muove il capitale finanziario, con l’effetto di innescare una grande campagna di promozione sociale, dentro l’Europa, ma anche fuori dall’Europa. Infatti, l’idea di società che sta alla base di questa visione è destinata inevitabilmente a essere esportata, per il contenuto di aspirazione al benessere diffuso e generalizzato che ne è il pilastro centrale. A essere posto in discussione da Draghi non è tanto il rapporto generico tra stato e mercato, ma il rapporto specifico tra mercato e stato democratico nell’equilibrio social-democratico in cui la libera iniziativa è tutelata e stimolata, purché il suo lato oscuro predatorio sia controllato e bilanciato da una politica di riequilibrio e redistribuzione che rende il sistema una democrazia sociale di mercato. Pur senza un’espressa definizione in questo senso, il percorso europeo che va nella direzione indicata da Draghi tende all’adeguamento su scala continentale, nello scenario mondiale di oggi, della socialdemocrazia di Olof Palme e degli altri leader socialisti europei degli anni ‘80 del ‘900. Da questo punto d’avvio può svilupparsi un dibattito a ridosso delle elezioni europee, in un anno in cui oltre che in Europa si vota anche negli USA, e alla fine del quale la relazione speciale atlantica tra europei e americani, sul piano politico, militare ed economico, potrebbe atteggiarsi in modo molto diverso da quello al quale ci si è abituati negli ultimi 70 anni. Perché è chiaro che l’idea d’Europa di una destra sempre più forte è agli antipodi di questa, e anche perché tra alcuni dei leader centristi, popolari e liberali pare serpeggiare la tentazione di saltare il fosso, abbandonando il tradizionale asse di centro sinistra per restare al governo del continente in una maggioranza di centro destra, ancorché condizionata dalla sua componente reazionaria. Ciò su cui, con parole raffinate ed eleganti, Draghi vuole attirare la nostra attenzione, è che il bivio al quale ci avviciniamo è tra la visione d’Europa di Olof Palme e quella di Orbàn. E che non potremo portare gli europei a sdegnare la tentazione della destra semplicemente promettendo di lasciare tutto come prima: la futura Europa da promettere è quella che difende i suoi cittadini dalla rapacità del potere economico, che assicura benessere e sicurezza, che diventa il riferimento mondiale del modello sociale in cui il mercato deve essere mantenuto nella compatibilità con la democrazia e con lo stato sociale. Ci vogliono buone teste, e Draghi mostra, se mai se ne fosse dubitato, di averne una.
* Luciano Pilotti è professore ordinario di economia e gestione delle imprese all’Università di Milano