Intervista a Giuliano Amato:«La lezione di Intini per il futuro: Il riformismo socialista è ancora attuale»

Intervista di Giada Fazzalari

Racconta Giuliano Amato: “ad una settimana dalla scomparsa di Ugo Intini si nota che dalle persone più diverse – e anche dalle aree politiche più diverse – è venuto un giudizio unanimemente positivo, simboleggiato dagli aggettivi che sono stati usati per ricordarlo: coerente, onesto, testardo nelle sue idee ma sempre gentile”. Ne è venuto fuori, fa notare l’ex presidente del Consiglio, un ritratto verace per chi lo ha conosciuto.

Per chi ha vissuto anche le vicende che hanno portato al discredito del partito al quale entrambi appartenevamo, è una specie di riconoscimento storico a distanza” – sottolinea Amato in questa intervista all’Avanti! della domenica – “che i socialisti non erano un partito di ladri. Avevano quella tara come tutti gli altri partiti del tempo, ma non era quella l’immagine che avevano costruito. Io ricordo ancora, quando nacque il centrosinistra, mi colpì un titolo di giornale che più o meno diceva che ‘entravano nel governo delle persone oneste’. Storicamente c’era questa associazione, alla quale la vicenda di Tangentopoli recò un grande danno. La generalizzazione che colpì moralmente migliaia e migliaia di militanti socialisti onesti trova in questa figura, quella di Intini, oggi un contraltare che conta”.

Già presidente del Consiglio per due mandati, parlamentare socialista, Ministro dell’Interno, delle Riforme istituzionali, del Tesoro, presidente emerito della Corte Costituzionale, giurista e costituzionalista, Giuliano Amato ha condiviso con Ugo Intini non soltanto la militanza nel Psi ma anche valori di più lunga durata, come un’amicizia mai interrotta, neanche in tempi recentissimi.

C’è qualcosa che avevate in comune?

«Portava sempre le stesse scarpe finché proprio diventavano inutilizzabili. In questo eravamo uguali. Io come lui contribuisco, ad esempio, a mantenere, finché non scompare, l’attività artigianale del ciabattino, una figura che ha ormai pochissimi clienti»

Un tratto caratteristico era l’anticomunismo.

«Una battaglia politica che ha condotto per tutta la vita. Il comunismo per lui era sbagliato per l’errore che avevano già segnalato al loro tempo personaggi come Kautsky e Turati. Basta vedere la storia che è seguita e i giudizi che questi due padri del socialismo avevano dato decenni prima ancora che lo stalinismo combinasse tutti i suoi guai e i suoi orrori. Intini era convinto di quel giudizio che comportava ciò che poi accadde, prima con Lenin e poi con Stalin: che non ci sarebbe stata evoluzione possibile di un sistema costruito sulla centralizzazione di un potere che non ammetteva dissenso e che concentrava tutto, dall’economia alla società. Non avrebbe potuto produrre né l’uomo nuovo, né una forma di democrazia. La storia ha dato ragione a Kautsky e a Turati. Ugo non aveva dubbi che così sarebbe stato e questo portava alla sua fermezza di giudizio, accompagnata – si noti – da una posizione non sempre collimante con quella delle socialdemocrazie»

Il Lib-Lab?

«Sì, nella sua testa c’era il Lib-Lab, che tirò fuori nel famoso libro con Enzo Bettiza del ‘79. Era convinto che la società che si sviluppa anche grazie al riformismo socialista è una società nella quale le politiche pubbliche non possono essere solo di intervento sociale ma devono essere anche politiche liberali»

Ed è un principio condivisibile?

«C’è uno dei tratti che ho sempre attribuito al riformismo: quella visione e quella politica che deve metterti in condizioni di camminare sulle tue gambe. Non i bisogni ma anche le capacità, attraverso le quali si deve arrivare a soddisfare i bisogni»

E poi c’è il rapporto con Craxi…

«Una fedeltà sofferta perché non era facile collaborare con Craxi. Quante volte ci siamo scambiati telefonate nelle quali condividevamo la sofferenza di chi collaborava con quell’uomo, che aveva modi spesso bruschi»

Sono le figure carismatiche del socialismo, non solo italiano, quelle che lo interessavano di più?

«È così. C’è sempre uno sfondo di storia e uno sfondo largo di vicenda del socialismo, non solo italiano, in ciò che lui scrive anche quando si tratta di cronaca, e cronaca ne ha fatta tanta in quel mestiere che qualcuno ha scritto, giustamente, che nella storia del partito socialista il direttore dell’Avanti valeva quanto un Ministro. Chi in Italia ha scritto quando Guterres è diventato segretario generale dell’ONU è stato proprio Intini con “un socialista all’ONU”, un libro del 2017»

Uno splendido libro è quello che Intini ha dedicato alla guerra e al dopoguerra italiano…

«In “Un bambino e la storia, memorie per unire” racconta l’Italia sotto i bombardamenti e poi l’Italia della ricostruzione, avendo uno scopo preciso: quello di creare una memoria condivisa per un Paese che è debole anche perché non ce l’ha. È socialista autentico, combatte fino in fondo il comunismo ma tutto è fuorché settario; nella mente ha un Paese in cui si possano condividere i valori di fondo»

Testardo ma non settario?

«Sì, in quel libro manifestava tutta la sua preoccupazione per la divisione sempre più amico-nemico che aveva caratterizzato l’Italia e l’aveva, appunto, indebolita. È la storia della sinistra, è la divisione tra socialisti e comunisti che sfibra il nostro welfare state degli anni ‘60; è l’aver vissuto la vicenda di Tangentopoli come un’occasione per distruggere qualcuno e non per ricostruire un sistema di partiti che aiutasse l’Italia ad essere meglio di quella che poi, come abbiamo visto, è diventata»

La sua battaglia per ridefinire la figura di Togliatti è stata a viso aperto ma è stata anche molto lapidaria.

«Lo ricordo nettamente, lui disse: “Togliatti stesso si sentiva più sicuro ad essere capo dell’opposizione in un Paese democratico che non al governo comunista di un Paese satellite”. E qui coglieva un elemento che non è mai stato sviluppato sino in fondo, io ho provato a farlo di recente in più occasioni, e che aiuta a capire il partito comunista italiano cogliendone, come Ugo fece, il radicamento nazionale nel tempo. E anche per questo sentiva forte il bisogno che si staccasse dal mondo comunista internazionale»

Da questo punto di vista l’estenuata lunghezza del distacco dall’Urss non è stato ancora più dannoso per la sinistra italiana?

«Il punto è che Togliatti lo sapeva fin dall’inizio che il suo futuro poteva essere solo in un sistema democratico, che l’Italia non per decisione della sua politica interna, ma per decisione di Yalta – e quindi dello stesso Stalin – aveva il destino di stare in Occidente e non le era permesso di rompere l’accordo di Yalta passando dall’altra parte. In altre parole il partito comunista in quanto comunista non avrebbe mai potuto governare finché ci fosse stata la divisione del mondo consacrata da Yalta. Figuriamoci se Togliatti non lo sapeva e appunto questo rende ancora più aspro e più meritevole di quella critica che Ugo faceva col passare degli anni – che cosa aspettate a staccarvi da Mosca? – e tutti sanno che erano ragioni poi di consenso interno, un consenso che era stato costruito sul mito sovietico e che faticosamente negli anni è stato spostato sulle ragioni nazionali»

Negli ultimi anni Intini era diventato un critico della globalizzazione e del mercatismo: un pensiero ancora utile?

«Un Intini di cui anche si è parlato poco, perché lo si è sempre visto ancorato alle vicende del Psi e al suo rapporto con Craxi, è l’Intini analista del mondo in cui oggi viviamo, della globalizzazione, dei partiti socialisti che finiscono per perdere se stessi e la propria visione del mondo travolti, in qualche modo – lui lo dice – dal mito del mercato che va aldilà di quanto loro avrebbero fatto bene a fare dopo la “terza via”. Mi riferisco a un libro del duemila, “La privatizzazione della politica”: la globalizzazione è da poco iniziata e lì si leggono le critiche e le autocritiche che la sinistra verrà facendo anni dopo, prendendo atto di quella che lui chiama “l’internazionale capitalista”, che sta travolgendo la politica, subordinandola ai grandi interessi economici e finanziari che la globalizzazione ha reso dominanti in tutto il mondo. E ci sono passaggi in cui paventa il rischio che l’appeal di una sinistra che si dichiari conquistata dal pensiero unico liberista venga praticamente ridotto a zero. E c’è un bellissimo passaggio in cui dice: “torniamo all’Ottocento”. La nuova società, tutta terziaria, finanziarizzata, globalizzata, è una novità come lo era stata la società industriale dell’Ottocento»

Che cosa intendeva con quel paradosso del ritorno indietro di due secoli?

«I socialisti di allora non combatterono la macchina, ne erano anzi entusiasti come oggi lo sono del computer; erano i propagandisti della modernità ma non per questo tacevano di fronte alle ingiustizie e si adoperarono per rimuoverle. E così nacque il riformismo sociale. E lui conclude dicendo: ecco, oggi occorre fare la stessa cosa. Ma ti rendi conto che queste sono le cose sulle quali si scrive oggi, venticinque anni dopo? prendendo atto delle diseguaglianze accresciute dalla globalizzazione, del fatto che non ci si è fatti carico e così si è creata questa nuova destra di cui parla l’Economist di questa settimana, che non è più liberista ma è statalista, agisce cioè in nome dei ceti più indeboliti»

Non è stato soltanto un dirigente di partito, un direttore ma anche un intellettuale di valore?

«Tutto questo fa capire la statura del personaggio e di questa sua capacità di vivere la cronaca politica nel profondo della storia. Qualcosa che è più di ciò che pure di positivo si è visto di lui nei primi commenti dopo la sua morte»

Qualche ricordo privato, simpaticamente memorabile?

«Abbiamo fatto due viaggi bellissimi in Cina e in America Latina. In Cina ci fu un’accoglienza aperta: eravamo del partito di Nenni, figura mitica per loro perché aveva aperto i riconoscimenti in Europa del governo cinese. Era estate e c’erano 35 gradi, negli alberghi c’era un’aria condizionata quasi proibitiva per un essere umano. Tutti lo osservavano perplessi perché portava sottobraccio con sé, per strada, un cappotto, che indossava prima di rientrare in albergo. Riteneva in questo modo di essere sopravvissuto a quelle temperature…»

E in America Latina?

«Eravamo a La Paz, a quattromila metri chiunque si sarebbe sentito un po’ in difficoltà con la respirazione. Avevamo un incontro con il partito progressista locale che lì era guidato da una donna, la quale cominciò ad adocchiare questi nuovi venuti, per capire chi le conveniva invitare a casa sua per passare con lei il resto della serata. Io e Ugo non eravamo interessati e un po’ malfermi, e cominciammo a tirare fuori espedienti di ogni tipo per sostenere che proprio dovevamo rientrare in albergo al più presto… lasciando questa signora tecnicamente all’asciutto. Lo ricordammo per anni con divertimento»

Qual è il pensiero più attuale di Ugo?

«Nel Duemila si era posto il problema, che è attualissimo, dello spazio per il suo socialismo nel XXI secolo. La sua risposta era positiva, come lo è la mia. Coloro che stanno ritrovando i motivi del riformismo socialista per rimediare alle fratture sociali profonde che si sono create in questi anni, hanno esattamente l’ispirazione di Ugo»

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