Partecipazione democratica, classe dirigente e legge elettorale

di Livio Valvano

Gli auguri servono all’Italia nel 24° del terzo millennio. Servono per tanti motivi. Le proiezioni costruite sulle implacabili statistiche demografiche disegnano un Paese in declino. Un Paese indebitato, che invecchia, non fa più figli, vuole più servizi, più reddito, più pensioni e non vuole gli immigrati. Un Paese preoccupato per il progressivo indebolimento del sistema pensionistico e che però non si preoccupa di rimpiazzare il capitale umano necessario per finanziare le pensioni. E così abbiamo il Governo che cavalca i sentimenti che sono stati cinicamente alimentati e che scorrono nelle vene degli italiani. Nelle urne è nato un Governo nazionalista e populista che distribuisce risposte ai bisogni unicamente attraverso la propaganda. I fatti, dopo il primo anno, dimostrano che è solo propaganda. Una visione di corto respiro di una classe politica di dubbio valore. È ancora valida l’equazione tra qualità della classe dirigente come specchio della qualità del popolo? Perché se così fosse, a giudicare dal corto respiro dell’iniziativa politica nazionale, dovremmo “dichiarare fallimento” come popolo, come nazione. Ma così non deve essere, non è accettabile, non possiamo rassegnarci. È una fase di buio della politica nazionale che non inizia oggi, dura da qualche decennio, questo è vero. Ma dopo il buio seguirà la luce se l’Italia saprà liberarsi dalle zavorre. È proprio la selezione della classe dirigente il tema centrale che andrebbe affrontato, in tutti i campi, ivi compresa la politica; è una premessa importante che non può essere subordinata alla discussione sulle riforme. Al di là delle intenzioni della Meloni, la proposta di modifica della Costituzione con l’introduzione del premierato, di per se, non aggiunge nulla di significativo se non l’inopportuna diminuzione dei poteri di Parlamento e Presidente della Repubblica. Ma prima di arrivare a questo le forze politiche e i gruppi parlamentari, dovrebbero interrogarsi se dare un senso e una concreta attuazione all’articolo 49 della Costituzione che, come a volte accade, non ha trovato fino ad oggi una concreta attuazione. Bisogna decidersi se dare o meno, una volta per tutte, un ruolo vero ai partiti per alimentare la politica nazionale e selezionare la classe dirigente. Bisogna rivedere il sistema elettorale, strumento fondamentale di legittimazione democratica dei governanti. I clamorosi indici di disaffezione democratica, l’astensionismo diventato il primo partito in Italia, rappresentano il sintomo di un sistema che ha perso uno dei tre ingredienti basilari di una cultura politica progressista: la partecipazione. In antitesi alla visione gerarchica, tipica dei conservatori, partecipazione significa “coinvolgimento” nelle scelte. Partecipazione significa anche scelta degli eletti. Perché andare a votare, si chiede l’elettore, se non si può scegliere il candidato? La scelta dei parlamentari eletti da parte degli elettori genera quella necessaria e benefica relazione. Il ripristino della responsabilità del mandato elettorale affidato che sprona l’eletto a lavorare e a rendicontare sul suo operato. Un rapporto di fiducia sottoposto al controllo dell’opinione pubblica. Un meccanismo salutare di selezione e rigenerazione della classa dirigente. Oggi invece cosa accade? Gli eletti in Parlamento a chi rispondono? Non rispondono certamente agli elettori cui è stata tolta la facoltà di poter scegliere. Rispondono solamente al segretario politico detentore del simbolo elettorale, al segretario politico che avrà tale ruolo alle successive elezioni. In questo c’è la causa principale della degenerazione del sistema politico italiano. E anche su questo tema i socialisti e l’Avanti! si faranno sentire nel 2024.

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