di Lorenzo Cinquepalmi
Viviamo in un paese in cui migliaia e migliaia di persone, nonostante lavorino, sono costrette a mettersi in coda per prendere da mangiare alle mense dei poveri, da istituzioni caritatevoli come il Pane quotidiano, la San Vincenzo, la Caritas. In cui milioni di persone non accedono a visite specialistica, diagnostica e terapie, perché stremate da liste d’attesa di mesi o anni, costruite ad arte per imporre la sanità a pagamento che è fuori dalla loro portata, o, addirittura, anche quando potrebbero accedere alle cure, vi rinunciano perché non hanno abbastanza soldi nemmeno per pagare il ticket. In cui ci sono salari contrattuali inferiori ai cinque euro l’ora, e lavori avventizi nella raccolta dei prodotti agricoli piuttosto che nelle consegne a domicilio, pagati tre euro l’ora. In cui la casa, anche modesta, è diventata un lusso, inaccessibile a chi ha reddito instabile ma sempre meno accessibile anche a chi ha un lavoro che, un tempo, avrebbe garantito sicurezza. In cui studiare, istruirsi, formarsi, costa cifre di anno in anno sempre meno sostenibili. In cui il welfare è costituito dalla pensione dei nonni, costretti a soccorrere figli e nipoti indigenti, finendo nell’indigenza essi stessi. In cui un numero di abitanti inferiore all’uno per mille, cioè cinquantamila su oltre cinquanta milioni, ha tre volte la ricchezza di tutti gli altri messi insieme, e in cui un abitante su dieci è povero, povero assoluto. Solo quindici anni fa erano tre su cento: sono più che triplicati in meno di una generazione. In quindici anni la povertà ha ingoiato milioni di persone come noi, e si prepara a ingoiarne altri milioni. Questo orrore non riguarda solo l’Italia se, mediamente, in tutta Europa, un bambino su quattro è a rischio povertà. Da anni Caritas, Oxfam, Istat, documentano il progressivo impoverimento degli italiani; il benessere non esiste più, riguarda solo una frazione minimale della popolazione. Un secolo fa, sull’Avanti!, Scalarini pubblicava un suo disegno dal titolo “La morsa della fame”, che stritolava la gente tra le ganasce del carovita e dei salari insufficienti. Inflazione e salari da fame, oggi come allora. Cento anni di lotte e di conquiste sociali sono stati cancellati insieme alla coscienza popolare, senza la quale nessuna conquista è per sempre. Da una parte: precarietà, stipendi bassi o bassissimi, il ricatto del licenziamento. Dall’altra parte: prezzi fuori controllo, a pagamento anche i diritti collettivi come la salute, inaccessibilità dei beni da cui dipende la libertà di vivere, come la casa, il riscaldamento, il cibo. Ogni acquisto, ogni spesa, ogni rata o canone, ogni esborso, non sono più inseriti nell’equilibrio della proporzione tra ciò che si dà e ciò che si riceve, ma sono lo strumento con cui si drena la ricchezza per concentrarla nelle mani di pochi. E così, mentre un pugno di ricchi accresce enormemente la sua ricchezza, una folla sterminata di disperati precipita verso la miseria. Queste masse, che solo quarant’anni fa avevamo definito come l’antica plebe che ha spezzato per sempre le sue catene, vedono oggi le lancette della storia portate indietro di un secolo. Allora era stata la nascita di una coscienza proletaria, fatta germogliare e alimentata dalla passione dei socialisti, a creare le condizioni sociali, politiche, economiche per l’emancipazione dal bisogno delle masse. Oggi, la perdita di quella coscienza riporta milioni di persone a una condizione che si credeva superata per sempre. Questi milioni di diseredati hanno bisogno di sentirsi dire che la povertà non è un destino ineludibile, che quella della libertà dal bisogno è una battaglia che dobbiamo combattere ancora una volta tutti insieme, come un secolo fa. Perché la tassa occulta dei ricchi sui poveri è tornata, più feroce di allora.