Pagare per vivere. La sanità secondo la destra

di Stefano Amoroso

Pagare al Pronto Soccorso per saltare la fila, fino a pochi anni fa, sarebbe sembrato l’incipit di un brutto film sul degrado della nostra società. Ed invece è quello che sta succedendo, da un po’ di tempo, in alcuni ospedali della Lombardia. A scopo sperimentale, in alcuni ospedali privati accreditati presso il Sistema Sanitario Nazionale, ormai i pazienti del Pronto Soccorso si trovano davanti due strade, ben distinte: da un lato, la fila gratuita e che può arrivare, per i casi più lievi, fino a 9 ore. Dall’altro, la fila a pagamento (fino a 149 euro al Policlinico San Marco, in provincia di Bergamo) che può durare anche solo pochi minuti. È il risultato di una politica che risale indietro negli anni, fino agi esordi di Formigoni, e che ha visto prima aumentare il ruolo e l’importanza della sanità privata in convenzione, poi la riduzione della medicina di base e di altri servizi essenziali, bollati come “sprechi”, ed infine l’esordio della sanità a pagamento. Ma non è l’unico esempio di favoritismo indiretto del privato nella sanità pubblica. Infatti, il tetto agli stipendi ha finito per accelerare sia la fuga dei cervelli all’estero, sia lo spostamento verso il privato del personale rimasto in Italia. Infine, ma non meno importante, l’uso spropositato dei “gettonisti”, ovvero dei medici esterni, non arruolati mediante concorsi, per tappare i buchi della carenza di organico in diverse discipline dell’area medica e non solo. Questi professionisti sono stati remunerati grazie a risorse economiche garantite dalla voce “Spesa di acquisto di beni e servizi”, non gravata da tetti come accade, invece, per il personale dipendente. Ad una analisi superficiale, la soluzione sembrerebbe accontentare tutti, dalla Direzione Strategica (turni coperti), ai professionisti reclutati (nettamente meglio remunerati dei colleghi  dipendenti), sino agli ignari cittadini. Viceversa, come sovente accade, non è tutto oro quello che luccica. Infatti, dal punto di vista della spesa pubblica, la soluzione proposta è svantaggiosa per lo Stato. Facciamo un esempio. Un turno di guardia di dodici ore, in Pronto Soccorso o in uno dei servizi (ad esempio, la radiologia) che devono funzionare h24, viene remunerato con 1200-1500 euro lordi, emolumento clamorosamente maggiore di quanto percepito dal Dirigente dipendente. E sono sempre soldi che provengono dal bilancio pubblico, quindi lo Stato ci rimette. Se osserviamo il fenomeno dal punto di vista del cittadino, della sicurezza delle cure, della qualità del prodotto erogato, i problemi non mancano: sono state segnalate numerose e gravi irregolarità dai Carabinieri del NAS a seguito di controlli: dall’età dei professionisti sino alla assenza dei requisiti specifici. Per non parlare della sicurezza di questi “lavoratori autonomi”: siamo sicuri che il datore di lavoro provveda a realizzare in maniera adeguata l’informazione, la formazione, l’addestramento e la sorveglianza sanitaria? Se guardiamo il caso dal punto di vista aziendale e organizzativo, ebbene le criticità non tendono a ridursi. Pensiamo allo screening mammografico. I radiologi dipendenti sanno assumere le proprie responsabilità professionali richiedendo gli accertamenti di secondo livello solo nei casi veramente sospetti. Sanno bene che eventuali anomalie nel loro operato potranno essere valutate negativamente dai colleghi con i quali lavorano “gomito a gomito”, quotidianamente. Questa invece non è una priorità per i medici che prestano la propria opera occasionalmente, senza alcun legame con l’ambiente, e senza condivisione delle regole stabilite dal gruppo interno. Se infine analizziamo la faccenda dal punto di vista dei Dirigenti dipendenti del Sistema Sanitario Nazionale, allora abbiamo la stangata finale. Il diverso trattamento viene percepito come profondamente ingiusto: la stessa azienda, che nega lo scatto da 100 euro a 120 euro per indennità notturna, non batte ciglio se deve pagare queste cifre concordate con le cooperative, oppure direttamente con i medici “gettonisti”. Lo spirito di squadra e di sacrificio, a quel punto, va definitivamente a farsi benedire e, di conseguenza, si assiste alle dimissioni di camici che scelgono altri lidi dove operare in condizioni più vantaggiose. E se la sanità ospedaliera piange, quella di base certamente non ride. Per capirlo, basti citare l’esempio del caos sorto intorno ai tamponi per il Covid e delle prescrizioni mediche per permettere ai malati sintomatici di mettersi in malattia e stare a casa, evitando di contagiare colleghi e terze persone. Logica vorrebbe che fossero i medici di base a poter fare i tamponi ufficiali, forniti dalle Asl e pagati dal SSN. Ma questo non sembra essere nelle intenzioni del Governo. Il Governo Meloni, dunque, conferma la sua tendenza allo svilimento del Sistema Sanitario Nazionale ed alla promozione della sanità privata. Ovviamente a pagamento. Ma così facendo, in maniera del tutto cosciente, viola la Costituzione e mette a rischio la salute di tutti, indipendentemente dal conto in banca. Eppure, non ci vorrebbe molto per far riprendere fiato alla sanità pubblica italiana. Basterebbero 4 miliardi all’anno, per i prossimi conque anni, per riportare l’Italia nella media dei Paesi OCSE e garantire a tutti una sanità pubblica dignitosa. Così i privati potrebbero dedicarsi alla parte più innovativa e meglio finanziata della ricerca sanitaria. Alla fine, crediamo, converrebbe a tutti

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