J’accuse! Trentamila persone in trent’anni hanno fatto la galera ingiustamente

di Lorenzo Cinquepalmi

Nella memoria di molti il paradigma dell’errore giudiziario, della reazione dell’opinione pubblica al suo palesarsi e del ruolo dell’informazione nel suo accertamento, è l’Affaire Dreyfus: la condanna di un innocente sull’onda di una formidabile emozione collettiva e lo smantellamento della condanna, e del complesso di volontà che l’avevano determinata, grazie ad un’altrettanto formidabile spinta emotiva. In mezzo, l’informazione, con quel J’Accuse di Zola che ci hanno insegnato a scuola. In Italia, in tempi più recenti, è il caso Tortora a costituire l’esempio dell’errore giudiziario, anche se limitato al primo grado, perché l’imputato, sottratto ai ceppi dalla sua elezione al Parlamento Europeo voluta da Pannella, fu assolto in appello. Ma la vicenda Tortora è più rappresentativa della realtà attuale, perché l’errore/orrore da lui patito è rimasto senza contrappeso, senza una conseguenza per coloro che lo concretizzarono. E perché il ruolo dell’informazione non è stato certo quello che ebbe, in Francia, quasi un secolo prima, nel caso Dreyfus. Sono soprattutto questi due aspetti a conservare alla storia di Tortora un’attualità che, a quarant’anni di distanza e nonostante le riforme intervenute in tema di errore giudiziario e responsabilità dei magistrati, la rendono sovrapponibile a quelle delle troppe vite triturate da una macchina della giustizia troppo spesso feroce e ottusa. La Corte dei Conti, nel contemplare il pesante esborso di denaro pubblico per riparare (in misura mai adeguata e sufficiente) i mesi e gli anni di galera sofferti senza ragione da troppe persone, e dopo avere acquisito un importante campione degli atti di processi caratterizzati da galera gratuita, si è chiesta a quanti dei magistrati che ne siano stati responsabili sia toccata una valutazione (non una sanzione, ma almeno una valutazione) in sede disciplinare. La desolante constatazione è che nessun processo che ha dato luogo a un risarcimento a spese dei contribuenti risulta aver mai generato una verifica di correttezza dell’agire dei magistrati che lo hanno maneggiato. Nulla di nuovo: i responsabili della via crucis di Tortora ebbero una brillante carriera. E dunque, cosa manca per imprimere veramente una svolta a un sistema che, chiaramente, non solo funziona male ma, soprattutto, vìola praticamente tutti i principi costituzionali sulla giustizia? Manca il J’Accuse. Manca il ruolo essenziale dell’informazione, addomesticata come e più della politica all’esperienza che insegna come toccare i magistrati significhi farsi del male, e come assecondarli faccia, invece, prosperare. Manca la capacità dell’informazione di smuovere la coscienza collettiva con un moto che, dal caso singolo, dall’emozione del momento, evolva verso la volontà di cambiare seriamente e radicalmente le cose. Se la nostra giustizia penale, come nel resto del mondo civile, è retta dal principio per cui un accusato è innocente fino a sentenza definitiva di condanna, allora dovrebbe essere patrimonio comune, sapere e convinzione di ogni cittadino, che in galera ci si debba andare solo quando arriva la condanna definitiva, salvi casi eccezionali di conclamata pericolosità sociale. Invece il cortocircuito tra procedimenti eterni, che arrivano a sentenza a lustri dalla commissione di un reato, e l’istinto di vedere dietro alle sbarre qualcuno finché l’emozione provocata da un crimine è ancora vivida, crea le condizioni per un esercizio abnorme del potere trasversale e feroce di carcerare in attesa di giudizio, e poi di condannare con una certa sommarietà. In fondo, la mancanza di una spinta culturale e civile capace di temperare la sete di vendetta collettiva per il delitto è alla base di tutte le distorsioni del nostro sistema penale. Il delitto è sofferenza anche per chi non è vittima; la sola esistenza del crimine genera la paura di restarne vittima e, per reazione, la sete di vendetta. Senza un adeguato contrappeso razionale e ideale a questa spinta, essa si traduce in una grande occasione per chi, coltivando e, in parte, dissetando quell’afrodisia di espiazione altrui, lucra profitti e carriere. In definitiva, la mancanza rilevata dalla Corte dei Conti è la naturale conseguenza della scomparsa dell’indignazione per l’ingiustizia: sazie di vendetta mediata, le nostre coscienze non si ribellano più quando scoprono che la vendetta ha colpito a casaccio e che a pagare è stato uno che non lo meritava. Dal 1991 al 2022 i casi di ingiusta detenzione riconosciuta (e quanta resistenza oppone il sistema prima di rassegnarsi a riconoscerla…) sono stati 30.778. Sono quasi mille all’anno, pressappoco tre al giorno. Ogni giorno la nostra Repubblica, lo Stato della nazione culla del diritto, toglie ingiustamente la libertà a tre persone. Nessuno si indigna, nessun J’Accuse, nessuno paga, se non l’erario, cioè tutti noi. Anzi, in tanti prosperano su questa macchina irresponsabile. Allora, chi ha coscienza la svegli, e lo dica a voce alta: io accuso! Accuso un sistema perverso di fare ingiustizia, di essere disumano, di esercitare il potere non a beneficio della collettività ma nell’interesse di certi magistrati, certi giornalisti, certi politici. E accuso tutti noi di non gridarlo abbastanza forte. L’unica quantità accettabile di ingiusta detenzione è zero, e se troppi lo hanno dimenticato, è tempo di cominciare a ricordarlo. Io accuso, noi accusiamo.

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