Intervista di Giada Fazzalari
Un bilancio incoraggiante per il centrosinistra quello che emerge dalle urne, all’indomani delle elezioni in Sardegna e in Abruzzo. La strada dell’alternativa è lunga ma va rafforzata e coltivata. E’ la sintesi dell’analisi che Roberto Morassut, deputato del Partito Democratico, già sottosegretario nel governo Conte II, e vice presidente della Fondazione Matteotti, fa in questa intervista con l’Avanti! della domenica. Per Morassut, la sinistra italiana, per essere più competitiva e prepararsi alle prossime sfide, si deve “nutrire” di una più forte cultura politica socialista.
Nei due ultimi appuntamenti elettorali, il centrosinistra sembra aver risalito la china: vince in Sardegna, non ottiene il risultato sperato in Abruzzo ma il divario tra centrodestra e centrosinistra si è accorciato rispetto alle previsioni e rispetto ai risultati delle elezioni regionali precedenti. Il campo largo va dunque coltivato?
«Sì. Sono state due consultazioni che vedevano il centrosinistra in salita o più in difficoltà. In una di queste abbiamo vinto grazie ad una coalizione unita e ad una candidata credibile; nella seconda abbiamo perso con un divario minore rispetto alle previsioni. La strada dell’alternativa è ancora lunga ma si comincia a intravedere una capacità di aggregazione maggiore rispetto al recente passato, che va coltivata e rafforzata. Il Pd deve operare per rafforzare se stesso come asse trainante di questa coalizione. Il bilancio che possiamo fare, se non è del tutto positivo, è comunque incoraggiante»
Preoccupa però l’alto tasso di astensionismo…
«Ci sono ancora fasce di elettorato che scelgono di non partecipare al voto o che ritengono, anzi, che la partecipazione al voto sia indifferente per il cambiamento delle loro condizioni di vita. Questo è un problema soprattutto per il centrosinistra. Dobbiamo lavorare nella direzione di far ritornare al voto quelle fasce di elettorato popolare che quasi naturalmente dovrebbero stare nel campo del centrosinistra e che invece hanno preferito andare altrove»
Un’astensione che ha coinciso con la disaffezione dei cittadini alla politica. Il ruolo dei partiti è ancora valido in uno scenario del genere?
«Ritengo che noi siamo ormai in una fase in cui proprio l’idea stessa di partito politico vada sviluppata nella direzione di un partito-movimento, cioè di aggregazioni politiche che sappiano raccogliere intorno a sé una vasta rete di associazionismo, volontariato, di cittadini che si impegnano, che si aggregano in forme diverse e che stanno nel campo democratico del centrosinistra riformista ma che non entrano organicamente nei partiti e forse, probabilmente, ora non vanno neanche a votare perché non si sentono rappresentate. Serve una sorta di Epinay, come fece Francois Mitterand nel ’71. E cioè la trasformazione di un partito che sappia essere una rete di realtà che convivono all’interno dello stesso perimetro e che allargano il proprio campo. Questo per il Pd è essenziale anche per dare forza al centro sinistra e al campo largo»
Ma in alcune fasi della sua vita il Pd ha dimostrato a volte di poter fare da solo. È finita dunque la stagione dell’autosufficienza?
«Intanto noi dovremmo superare l’autosufficienza al nostro interno e cioè bisogna smettere di ritenere che così come siamo sia sufficiente per poter costruire un campo vasto di consenso e una coalizione larga e vincente. Bisogna andare con decisione verso quella Costituente di un campo democratico e riformista, definendoci davvero democratici, anche al limite elidendo la parola ‘Partito’ dando la sensazione che vogliamo aprire davvero i nostri confini»
Tutto sotto il tetto del partito socialismo europeo…
«È un’appartenenza indiscutibile. Il campo socialista europeo è un campo aperto, non è soltanto il vecchio socialismo democratico del dopoguerra, è un campo molto aperto e variegato, che naturalmente deve darsi un’organizzazione più forte. Questo è il tema anche della costruzione dell’edificio europeo. Peraltro ritengo che all’interno del partito democratico vada sviluppata meglio e con più nettezza, dal punto di vista culturale, un’impronta socialista, che prenda atto dei grandi cambiamenti che si sono verificati in questi anni e soprattutto dell’allargamento delle ingiustizie sociali»
In Europa tutti i grandi partiti socialisti e socialdemocratici, anche quelli di governo, si chiamano ‘socialisti’. In Italia no.
«In questo senso sono in atto grandi movimenti: la socialdemocrazia tedesca è una struttura organica ma si trova di fronte un po’ agli stessi problemi. I laburisti inglesi vivono stagioni diverse ma consideriamo che l’Inghilterra è un po’ un mondo a sé. Mentre invece in Francia il Psf è una forza oggi del 6% mentre si sta sviluppando un grande movimento alla sua sinistra»
Guardando al conflitto che si è riacceso in Medio Oriente e alla strage che si sta consumando a Gaza. Perché il governo italiano, a suo avviso, non prende una posizione netta, chiara, vera per il cessate il fuoco?
«Intanto chiariamo una questione: il governo italiano non ha una politica estera incisiva. Il nostro Paese ha scelto di restare in panchina, di essere una seconda linea. Questo è accaduto con la nostra posizione sul conflitto russo-ucraino, dove la destra ha molti scheletri nell’armadio, e sta accadendo per la guerra in Medio Oriente dove ci sono molti imbarazzi nei confronti di Israele. Noi stessi non contestiamo e non abbiamo mai contestato il diritto di Israele non solo di esistere, ma di svolgere pienamente la sua funzione di Stato senza subire da nessun punto di vista il rischio di aggressioni. Però questa guerra in Medio Oriente sta determinando un qualcosa di distorto, perché è stato giusto rispondere all’aggressione di Hamas, perché ogni Stato aggredito deve poter rispondere, ma quando poi si arriva a provocare una strage di civili colpendo i civili per colpire un avversario militare, le cose cambiano, soprattutto quando la strage si consuma con questa forza, questa violenza e con questa profondità. Noi abbiamo chiesto che si approvasse in Parlamento una mozione per cessate il fuoco e alcuni nostri parlamentari hanno svolto una missione a Rafah per vedere con i loro occhi la condizione in cui versa quel territorio. E spingiamo perché l’Italia torni a svolgere il suo ruolo decisivo che deve recitare negli scenari che riguardano l’Europa e il Mediterraneo»
Ma il governo è silente…
«La stessa assenza del governo italiano si registra sul piano politico in Europa. L’abbiamo vista in occasione della chiusura degli accordi del patto di stabilità dove sostanzialmente c’è stato un accordo franco-tedesco. Noi non abbiamo toccato palla»
Lei è vice presidente della fondazione Matteotti, oltre che parlamentare Pd. Il Congresso del Pse si è aperto, su impulso del segretario del Psi Enzo Maraio, con un omaggio dei vertici del Pd, Pse e Psi alla stele di Matteotti. Può dunque essere annoverato nel pantheon di tutta la sinistra italiana ed europea?
«È stata un’iniziativa molto importante perché restituisce e ricolloca la figura di Matteotti nella sua giusta dimensione e cioè quella non solo di un martire, ma di un patriota e di un grande socialista, di una figura della sinistra italiana ed europea che per i tempi in cui egli ha vissuto è stata di straordinaria innovazione. Matteotti è stato un grande anticipatore e portatore di un’idea di riformismo radicale, ciò che serve alla sinistra italiana: per lungo tempo, viste le divisioni all’interno della sinistra, maturate con Livorno e che sono esistite fino agli anni ‘90, la figura di Matteotti è stata oggettivamente confinata soltanto come figura di un martire. Invece oggi la ritroviamo in questo scenario e la celebriamo come una figura di un grande socialista, di un grande riformista radicale, che può essere ispiratore oggi di un atteggiamento verso la politica e di una visione politica dell’Italia e dell’Europa estremamente attuale»