Non c’e pace per quella terra martoriata

di Bobo Craxi

Violenza chiama violenza. Nell’anno e mezzo nel quale il mondo intero ha vissuto l’angoscia e le conseguenze politiche economiche del tragico conflitto che oppone Russia e Ucraina, si risveglia anche il vulcano dormiente del conflitto territoriale per eccellenza, cioè quello che in medio oriente oppone lo Stato di Israele e la minoranza palestinese in cerca perenne della sua integrità. Riemerge il terrorismo con tutte le sue forme più odiose e più esecrabili; il bombardamento ad un rave party affollato di ragazzi si rammenterà per la sua particolare inadeguata ferocia. Sul piano politico evidente che la scelta della frazione militare che tiene il controllo dell’unica fetta di territorio che ha una sua continuità, la cosiddetta striscia di Gaza, circondata da Israele e di fatto in piena gestione e controllo economico di Israele, è stata quella di portare un’offensiva dal carattere sensazionale per il modo con cui Hamas con i suoi miliziani è riuscita a penetrare per diversi chilometri nello Stato ebraico. Quest’azione, a cui ha fatto seguito e farà seguito una rappresaglia violenta, sanguinosa e preannunciata, ha messo a nudo la vulnerabilità militare di Israele che pure è una potenza tecnologica e nucleare assoluta ed ha riportato questo conflitto cronico agli onori delle cronache internazionali. Ma nella sua totale inefficacia politica, ha rianimato le generazioni più giovani che sono quelle che in questi venti anni hanno subito l’umiliazione della costrizione miserabile entro la quale devono sopravvivere, ha tentato di riqualificare l’alleanza islamica fondamentalista che da Teheran a Beirut arriva fino a Gaza. Lo sforzo americano è stato quello di far stringere un accordo storico fra alcuni Paesi arabi possidenti come l’Arabia Saudita e Israele, propedeutico ad una prospettiva di pace, di integrità territoriale larga dell’area mediorientale. I cinesi altresìì si sono posti come interlocutori in medio oriente ed hanno fatto riavvicinare le posizioni di Iran e Arabia Saudita, creando un inevitabile sconcerto da parte del Governo israeliano che si sente tuttora minacciato dall’unica potenza nucleare nell’area, che è l’Iran. Nel caleidoscopio mediorientale c’era spazio per una iniziativa politica e militare che tentasse di sparigliare le carte di un possibile ed eventuale risanamento della situazione e quindi fare leva sull’area più estremistica della resistenza palestinese; è stato semplice da parte di chi ha come obiettivo quello della destabilizzazione anti occidentale, considerato che Israele nonostante i suoi ripetuti processi autonomi ne è considerata la propaggine nel cuore del medio Oriente. Israele dal canto suo aveva in questi ultimi anni costruito un sistema perfetto di controllo del territorio, aveva rinunciato dopo il 2001 a perseguire le strade che Rabin e Perez avevano intrapreso e cioè di una soluzione di pace definitiva con i palestinesi indeboliti da leadership sempre più fragili. Obiettivo non solo la spartizione di Gerusalemme come città neutrale ma anche il ritorno dalla diaspora degli arabi palestinesi sparsi per il mondo (se ne calcolano milioni). Ritornato in sella dopo varie peripezie, Bibi Netanyahu per formare il proprio Governo ha dovuto scendere a patti con l’ala più estrema della destra israeliana, trasformando sempre più il suo Governo in un governo conservatore e reazionario e in definitiva influenzato da venature teocratiche esattamente come quello che regge il sistema precario della gestione dei territori palestinesi. Hanno aumentato a dismisura il numero delle case dei cosiddetti coloni, la più parte provenienti dall’est Europa e la tregua stipulata attraverso i buoni uffici degli egiziani alla fine del periodo Covid non ha retto. Sono mesi che l’artiglieria israeliana martella la striscia di Gaza dopo che Hamas con i suoi razzi rudimentali violava l’integrità territoriale israeliana e produceva qualche morto. L’attacco del periodo della festa del Sukkot non può considerarsi un fatto inatteso; l’effetto sorpresa nasce più che altro dalla improvvisa dimostrazione di potenza balistica e dall’addestramento militare che è apparso più elevato da parte degli incursori all’interno del territorio di Israele. È difficile prevedere come possa essere possibile riorganizzare un negoziato dopo tutte queste vittime e soprattutto essendo venuti meno in questa fase degli interlocutori essenziali, innanzitutto la debolezza dei mediatori internazionali e segnatamente europei. Ci sono settemila palestinesi nelle carceri israeliane e ci sono oggi centinaia di ostaggi nelle mani di Hamas; questa base negoziale probabilmente sarà anche quella che potrebbe far scaturire un cessate il fuoco dopo che naturalmente il Governo della destra israeliana avrà portato a termine quello che loro definiscono il lavoro. Ovvero la distruzione di una parte del territorio di Gaza, l’annientamento militare che produrrà un certo numero di morti civili. Oggi Israele si sente più autorizzata ad una reazione contundente; nello stesso mondo arabo ci si divide fra indifferenza e insofferenza verso Hamas. È una terra martoriata, dove sofferenze si sommano a sofferenze: quella del popolo ebraico che si sente minacciato non soltanto fra i propri confini; quella di una minoranza araba che disgraziatamente si è trovata priva di una identità che, paradossalmente, il protettorato inglese esercitato fino al 1948 aveva saputo salvaguardare. La solidarietà verso Israele in occidente è stata larga, l’amalgama con quello che avvenne l’11 settembre a New York ha avuto effetto; alcuni Paesi europei come l’Austria hanno sospeso gli aiuti verso la Palestina; altri hanno espresso dissenso per la sospensione degli aiuti decisa dall’Unione Europea alla popolazione palestinese, come Francia, Spagna, Danimarca, Irlanda e Lussemburgo. Il nostro Governo, come nel caso dell’Ucraina, ha proiettato in segno di solidarietà la bandiera israeliana su Palazzo Chigi, schierandosi senza se e senza ma con Israele. Non c’era migliore occasione per cercare di prendere distanza dalla destra conservatrice antisemita con la quale è alleata la forza di Giorgia Meloni; strumentalizzando questo esecrabile eccidio si determinano migliori condizioni per essere accettati nel contesto internazionale e questo con buona pace del “piano Mattei” che dovrebbe farci aprire le braccia al mondo arabo. Resta tuttavia sullo sfondo la terra martoriata dalle vittime e dagli affanni che un conflitto così prolungato comporta. Un conflitto nel quale, pur redistribuendo torto e ragioni, si è smarrita sovente la ragione e l’umanità che dovrebbe essere la bussola che orienta la sensibilità socialista e democratica della società nella quale viviamo.

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