Niente salario minimo e stipendi da fame. Ecco le “politiche attive” per il lavoro del governo Meloni

di Stefano Amoroso

Il tema del salario minimo continua a tenere banco anche in questo periodo in cui le questioni di politica estera vanno per la maggiore. Risale allo scorso 12 ottobre la solenne bocciatura, da parte del CNEL guidato da Brunetta, della proposta di istituire un salario minimo sperimentale, da affiancare a quello fissato con la contrattazione collettiva, come era stato proposto dal comitato dei saggi nominati dal Presidente della Repubblica. In soli 60 giorni dalla richiesta di un parere da parte del Governo Meloni, il Consiglio Nazionale dell’Economia del Lavoro è riuscito ad esaminare una delle questioni più controverse della politica del lavoro in Italia. Decidendo che no, i lavoratori dello stivale non hanno bisogno del salario minimo: tanto, c’è la contrattazione collettiva. La richiesta d’istituire un salario minimo è stata liquidata come “questione da anime belle” dall’ex Ministro della Funzione Pubblica, a capo di un Ente previsto in Costituzione, ma che la politica ha pensato a lungo di abolire. Il motivo della bocciatura, secondo Brunetta, è che prevedere un limite minimo di spesa, indipendente dall’andamento dell’economia e della produzione nazionale, è come scrivere un numero sull’acqua. E poi, secondo la maggioranza che ha approvato la relazione finale, che include tutto il centrodestra, ma anche la CISL ed Italia Viva di Renzi, la questione del salario minimo sarebbe marginale, in quanto quasi il 95% dei lavoratori subordinati sono coperti da contratti collettivi che prevedono salari più dignitosi dei 9 euro lordi all’ora previsti dalla proposta di legge appoggiata da tutta l’opposizione parlamentare, con l’unica eccezione di Italia Viva. Ora, a parte che ci sarebbe da spiegare al 5% dei lavoratori che sono marginali e sostanzialmente inutili, e quindi devono essere pronti anche ad accettare paghe da fame: è il mercato, bellezza. Poi ci sono coloro che, pur essendo coperti da un contratto nazionale del lavoro, guadagnano molto poco: parliamo di quasi 5 milioni di lavoratori che ricadono sotto la soglia dei 9 euro lordi all’ora, se escludiamo Tfr e rivalse contributive, e 1,9 milioni se, pur includendole, si resta al di sotto di tale cifra. Si tratta peraltro, prevalentemente, di collaboratori domestici e lavoratori subordinati in agricoltura, cioè braccianti, che svolgono lavori che sono per loro stessa natura temporanei e discontinui. Quindi, si tratta di lavoratori che guadagnano poco, e per giunta in maniera non continuativa. Già questa è una bella ingiustizia. Tuttavia, se a questi lavoratori “marginali” (per dirla alla Brunetta) aggiungiamo anche i parasubordinati e gli autonomi, formiamo una platea di circa 13,5 milioni di lavoratori e lavoratrici italiani. Vale a dire il 58% della forza lavoro in Italia. Numeri non propriamente “marginali”, checché ne pensi il centrodestra. In realtà, in Europa siamo rimasti tra gli ultimi a non avere un salario minimo che valga per tutti i lavoratori. E prima o poi ci si dovrà interrogare sul fatto che questa mancanza, insieme alle scarse protezioni per chi è senza reddito o ha gravi situazioni familiari che ne riducono la capacità di lavorare e formarsi, influiscono negativamente sulla crescita dei salari. Che infatti, come denunciano da diverso tempo UIL e CGIL, restano tra i più bassi d’Europa e non crescono da decenni, in termini reali. Più che della mancanza di lavoro, in Italia, bisognerebbe cominciare ad occuparsi del lavoro povero, e dei poveri lavoratori, a cui si chiedono miracoli pur trattandoli male e remunerandoli poco. Non pare proprio una questione da “anime belle”, quanto piuttosto una urgente e profonda necessità di equità e giustizia. Che, a ben guardare, sono due dei pilastri su cui si fonda una società democratica e moderna.

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