Netanyahu è un criminale. La corte penale internazionale verso l ‘arresto del leader del Likud

di Redazione

Israele fa parte dei Paesi che non hanno sottoscritto il Trattato di Roma, protocollo istitutivo della Corte Penale Internazionale, e non ne riconosce la giurisdizione. Ciò non fa comunque venir meno l’efficacia di un eventuale provvedimento emesso dalla Corte stessa, come un mandato di arresto internazionale, nei confronti di un suo cittadino. Ecco perché si registra in queste ore la grave preoccupazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre sembra imminente che la Corte dell’Aja spicchi nei suoi confronti e verso altri alti funzionari, politici e militari israeliani, una richiesta di arresto per i crimini connessi all’operazione militare che ha visto la distruzione di Gaza, conseguenza quest’ultima degli attacchi del 7 ottobre scorso da parte dei terroristi di Hamas in territorio israeliano. Anche i leader del movimento palestinese sarebbero destinatari di analogo provvedimento. La situazione che vede al centro delle indagini il leder del Likud rafforza uno scenario possibile che era già stato ipotizzato all’inizio della ripresa del conflitto. Un primo ministro già nell’occhio del ciclone della magistratura nazionale per le accuse di corruzione, che probabilmente in assenza dei fatti del 7 ottobre sarebbe già stato condotto davanti ad un tribunale, si ritrova ora al centro di una vicenda giudiziaria internazionale dalla quale non può che uscirne malamente, dovendo rispondere all’accusa di aver commesso crimini di guerra. E con lui anche il ministro della Difesa Yoav Gallant e il capo dell’esercito Herzl Halevi. Fonti israeliane raccontano di una intensa attività messa in campo dal Ministero della Giustizia israeliano e dagli avvocati delle parti per scongiurare quanto sembra preannunciato. Nella vicenda non è chiaro quale sia il grado di interessamento dell’amministrazione americana, se cioè, in virtù dell’antica e consolidata amicizia tra i due Paesi, l’amministrazione Biden stia tentando una sorta di mediazione, o meno. Quel che è certo è che questa accusa, sostenuta dall’ufficio del pubblico ministero presso la Corte penale internazionale dell’Aja, Karim Khan, si aggiunge a quella di genocidio relativa alla causa intentata dal Sudafrica contro Israele, sulla quale sta indagando la Corte Internazionale di Giustizia. Che, a differenza della Corte Penale Internazionale, è riconosciuta anche da Tel Aviv. Non devono aver giovato alla causa israeliana gli attacchi contro i convogli umanitari, il blocco degli stessi all’esterno della Striscia, il bombardamento degli ospedali e men che meno l’uccisione dei sette operatori dell’ong statunitense Word Central Kitchen agli inizi di aprile. Così, ovviamente, come i trentaquattromila civili morti sotto le bombe o a causa degli attacchi israeliani, o il numero di bambini morti nel conflitto, definito dall’Unrwa “senza precedenti”. Sarà forse per questo che, come riporta la stampa israeliana, le autorità di Tel Aviv avrebbero consentito ad osservatori indipendenti inglesi di visitare i prigionieri palestinesi (anche di Hamas) nelle mani dell’esercito israeliano, nel tentativo – si percepisce – di ammorbidire la valutazione generale sul loro operato. Concessione che dovrebbe tentare di bilanciare quanto dichiarato nelle settimane passate, sempre secondo quanto riportato dalla stampa, sia dal Ministro degli Esteri Israel Katz, il quale avrebbe chiesto che la fornitura d’acqua alla Striscia di Gaza fosse interrotta perché “questo è ciò che meritano gli assassini di bambini”; che quanto dichiarato dal ministro per gli Affari della Diaspora, Amichai Chikli, secondo il quale il lancio di una bomba nucleare su Gaza è “un’opzione” perché Israele “deve trovare il modo di causare sofferenza a Gaza”. Ora, mentre sono febbrili i colloqui in Egitto sulla possibilità di un cessate il fuoco, alla quale il mondo intero guarda con speranza, sul rilascio, tanto atteso, di un gruppo di ostaggi nelle mani di Hamas e sulla riapertura di un fronte diplomatico efficace, il popolo israeliano continua a scendere in piazza ogni giorno, come da sei mesi questa parte, per chiedere al governo la definizione di un accordo che consenta la liberazione di tutti gli ostaggi. Un ammorbidimento delle condizioni più estremiste nel governo, anche alla luce delle possibili incriminazioni internazionali, forse lo consentiranno.

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