Netanyahu alla resa dei conti con il suo popolo che chiede di trattare

di Andrea Follini

La maschera di Netanyahu sta calando; il gioco è stato scoperto. Si alzano poderosamente le voci di protesta in Israele contro il governo, ancora una volta giudicato colpevole della mancata liberazione degli ostaggi ancora nella mani dei terroristi di Hamas. Non si è dimenticato neanche in passato di ricordare quanto le sorti di questa folle guerra, ripresa all’alba del 7 ottobre dello scorso anno, siano collegate a doppio filo alle sorti politiche del leader del Likud. Prima la guerra finirà, prima Bibi (questo il nomignolo con cui viene identificato il premier) verrà messo davanti alle proprie responsabilità. Non solo quelle legate al conflitto ed alle omissioni o, all’opposto, al troppo agire, nel tentativo di definire la questione “una volta per tutte”, come ha più volte minacciosamente dichiarato. Lo attendono anche inchieste per corruzione, oltre alle richieste d’arresto della Corte penale internazionale. A far riesplodere la rabbia degli israeliani è stato il rinvenimento dei cadaveri di sei degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas da dieci mesi. La nuova strategia dei terroristi sarebbe quella di giustiziare gli ostaggi qualora i soldati israeliani si avvicinassero tentando la loro liberazione; questo per evitare di dare al governo di Israele un ulteriore motivo di vanto se gli ostaggi ritornassero vivi alle loro famiglie. Una lucida follia, quella di Hamas. Il governo di Tel Aviv ha chiesto scusa per questo ulteriore dolore inflitto ora ad altre sei famiglie. Ma questo ormai non basta più. Non basta certo al mezzo milione di israeliani che hanno invaso domenica 1 settembre le strade del Paese chiedendo al premier di cambiare strategia. Non basta certo ai tanti lavoratori che lunedì 2 settembre, su richiesta del sindacato nazionale Histadrut, hanno incrociato le braccia e, di fatto, bloccato il Paese, tanto che ci è voluta una sentenza lampo del tribunale del lavoro, emessa su sollecitazione del Governo, per far sospendere con tre ore di anticipo la protesta, ingenerando ulteriori critiche sul diritto di sciopero precluso, e non fermando per nulla le manifestazioni di protesta. Aerei a terra, treni fermi, perfino ospedali dove i medici hanno garantito unicamente le emergenze. Chiuse le scuole. Bar e ristoranti chiusi già dalla serata di domenica, per dimostrare con maggior forza l’adesione dei titolari alla protesta. Prima dell’avvio dello sciopero, il leader del sindacato Arnon Bar-David, dopo aver incontrato le famiglie degli ostaggi, ha dichiarato: “È impossibile continuare a restare inerti e indifferenti mentre i nostri figli vengono assassinati nei tunnel di Gaza. Bisogna raggiungere un accordo; un accordo è più importante di ogni altra cosa”. L’accordo, appunto. Quello sul quale più volte sembrava si fosse arrivati ad una convergenza, che consentisse la liberazione degli ostaggi ed il riconoscimento dello stato palestinese, con il ritorno della sovranità propria nei territori. Ma ancora questo accordo non c’è. Nonostante l’out out di Washington, secondo cui le parti in causa sono di fronte ad un “prendere o lasciare”, senza specificare meglio però cosa ciò comporti, Bibi non molla. Sa bene che se perde l’appoggio dell’ultra destra, secondo cui Gaza andrebbe rasa al suolo con tutti i suoi abitanti e poi colonizzata, la sua carriera politica è finita (e si apre per lui la parentesi giudiziaria). Ecco perché continua a tenere il punto, nonostante le pressioni Usa, sulla necessità di mantenere il controllo sul corridoio Filadelfia, la terra “cuscinetto” tra Egitto e Palestina, sulla cui potestà la destra israeliana non ammette compromessi. Anche (e soprattutto per quello) perché da quei valichi entravano e dovranno entrare tutti i materiali per il sostentamento della popolazione, ma probabilmente (ecco il timore di Tel Aviv) anche le armi e l’artiglieria che poi verranno puntate verso le città israeliane. Intanto la manifestazione di lunedì ha assunto dimensioni mai viste prima. A Tel Aviv i manifestanti hanno raggiunto la sede del Likud lanciando slogan contro il governo. La pressione nei confronti del primo ministro e dei suoi colleghi di gabinetto diventa insostenibile, tanto che cominciano a consolidarsi le crepe già viste in passato. Il ministro della difesa Yoav Gallant non ha nascosto il suo disappunto per le ultime intransigenti decisioni del Premier, dichiarando che se Netanyahu continuasse in questi propositi significherebbe che non vuole altro che la morte degli ostaggi. Singolare la convergenza sulla linea della protesta, intrapresa dal Gallant; che non è un ministro qualunque, ma quello alla difesa. Sul cui operato tante perplessità sono emerse in questi dieci mesi, ma che un tardivo ripensamento non potrà certo cancellare.

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