Intervista a Marta Marchiò: «Vi racconto l’orrore di Gaza, dove l’umanità ha perso. C’è odore costante di sangue ed i bambini hanno lo sguardo già adulto»

di Giada Fazzalari

Intercettiamo Martina al telefono mentre sta per prendere un volo per una missione umanitaria in Congo. Martina Marchiò è nata a Torino nel 1991; si è laureata in scienze infermieristiche nel 2013 e nel febbraio 2017 è partita per la sua prima missione con Medici Senza Frontiere. Da allora ha sempre lavorato per questa che è l’organizzazione medico-umanitaria indipendente più grande al mondo. Inviata dall’Ong a Gaza lo scorso aprile, dopo tutto ciò che è stato per quel lembo di terra il post 7 ottobre dello scorso anno, raccoglie questa sua esperienza in un libro, “Brucia anche l’umanità” (Infinito edizioni), un diario in cui Martina appunta tutto: il rumore delle esplosioni, che si fonde con quello delle urla e del dolore. E anche in questa intervista all’Avanti! della domenica, le trema la voce quando ci racconta dell’odore del sangue che si sente ormai ovunque, dei civili amputati, di quella volta che una bambina di 9 anni, a Gaza, le raccontò di avere un solo desiderio: quello di morire. Una vita in prima linea, come tutti gli operatori di Medici Senza Frontiere, che senza sosta, anche adesso, mentre scriviamo, lavorano per salvare vite umane. O rischiano la vita in una terra dove non ci sono più regole né umanità, perché anche gli operatori umanitari vengono presi di mira. E muoiono.

Dieci mesi di guerra, con i civili infrapposti tra l’una e l’altra parte in causa, hanno lasciato una lunga scia di morte e desolazione nella Striscia. Cosa hai trovato quando sei arrivata?

«Una situazione fuori controllo, che andava peggiorando di giorno in giorno. Il 6 maggio è iniziata l’invasione via terra di Rafah e da quel momento in poi c’è stata una escalation di violenza in tutte le zone di Gaza. La popolazione è stata obbligata a spostarsi anche dieci, tredici volte, ricevendo ordini di evacuazione massiccia sempre più frequenti e dal momento in cui si riceve un ordine di evacuazione si hanno dai 10 minuti alle 48 ore di tempo per scappare, molte volte le persone sono rimaste sotto le macerie o sono state colpite anche nella famosa area umanitaria, ormai completamente fittizia perché anche lì non c’è scampo. Migliaia di persone hanno perso la propria famiglia, sono rimaste sole. Non esiste più un luogo davvero sicuro».

E dal punto di vista sanitario?

«Il sistema sanitario è al collasso, molti ospedali e cliniche sono diventati bersaglio e oggetto di bombardamenti. È diventato ormai difficilissimo per le organizzazioni umanitarie portare assistenza sanitaria alla popolazione, da quando è iniziata l’invasione via terra di Rafah, al confine con l’Egitto, l’ingresso di materiale medico e persino degli alimenti è difficilissimo, dal momento che il valico è stato bloccato dall’esercito israeliano. C’è un’estrema necessità di far entrare gli aiuti, dalle medicine, alle attrezzature, al carburante, al cibo. La situazione diventa ogni giorno di più insostenibile».

Su 36 ospedali attivi a Gaza prima del 7 ottobre, solo 16 sono oggi operativi e MSF ha allestito anche un ospedale da campo. Questo può essere un aiuto sicuramente, ma non può essere certo la soluzione.

«Gli attacchi e bombardamenti continuano senza sosta. Questo ha un impatto fortissimo sulla popolazione e sulle attività medico sanitarie. Gli ospedali non riescono più a lavorare come dovrebbero, le risorse non bastano rispetto ai bisogni e i pochi ospedali rimasti in piedi lavorano fino a tre volte le loro capacità, ad un ritmo senza precedenti, con un flusso costante di feriti. I medici si sono trovati a prendere delle decisioni difficilissime su chi salvare».

Qual è l’immagine più ricorrente?

«Ricordo bene questo continuo arrivo di pazienti al pronto soccorso, tantissimi corpi riversi per terra, morti o ancora vivi ma feriti e quell’odore di sangue che non ti abbandona mai. E poi la sensazione costante di non potercela fare».

Ha preso il via anche la campagna vaccinale dei bambini contro la polio, che pensavamo da tempo debellata. I problemi non mancano certo, legati alla necessaria sospensione dei combattimenti, alla logistica…

«La polio è una malattia infettiva molto contagiosa che si trasmette per via oro fecale, conosciuta come la paralisi dei bambini e non è un caso che sia arrivata in un contesto come quello di Gaza, nel quale da più di dieci mesi la popolazione vive in condizioni igienico sanitarie terribili, dove l’acqua scarseggia e non c’è più modo per le persone di vivere in condizioni dignitose. Da quando sono entrati i vaccini il ministero della salute e le Nazioni Unite stanno lavorando insieme per questa campagna di vaccinazione di massa che coinvolge i bambini sotto i 10 anni».

In che condizioni lavora il personale sanitario?

«È stato richiesto a gran voce dalle organizzazioni umanitarie di poter avere un cessate il fuoco o comunque una tregua umanitaria che potesse permettere di vaccinare più bambini possibile in sicurezza. Tutto ciò purtroppo non è arrivato, è arrivata solo una pausa a zone che si spera possa essere rispettata. Però gli spostamenti della popolazione e dei team che devono vaccinare diventano ancora più complicati dal punto di vista logistico a causa proprio di questa pausa che non permette agilità. Si fa molta fatica a raggiungere tutti i bambini. La vaccinazione di massa è una buona notizia, ma non va spostata l’attenzione dal bisogno più importante».

Qual è?

«Lo ribadisco: un cessate il fuoco immediato, duraturo e sostenibile. Una riapertura dei confini per far entrare gli aiuti umanitari e le forniture mediche».

Nella Striscia ci sono campi profughi che vengono descritti da chi li ha potuti visitare, come gironi infernali.

«Dal 7 ottobre la situazione dei palestinesi a Gaza è andata peggiorando giorno dopo giorno. La maggior parte delle persone al momento è stata obbligata a spostarsi nella cosiddetta zona umanitaria, questa lingua di sabbia costiera, in realtà fittizia perché è stata attaccata più volte. Lì mancano i servizi di base come le latrine, scarseggia l’acqua e le persone vivono in tende sovraffollate dove non si riesce a respirare. Le persone disabili a Gaza aumentano giorno dopo giorno a causa della violenza e delle esplosioni. Ci sono tantissime persone che arrivano negli ambulatori di Medici Senza Frontiere, con braccia e gambe amputate. Non avevo mai visto così tante persone amputate, soprattutto bambini: più di dieci minori al giorno perdono gli arti a Gaza, un numero devastante. Ricordo di aver visto un signore sulla sedia rotelle che cercava di avanzare nella sabbia e rimaneva incagliato. Due giovani si sono avvicinati e l’hanno sollevato verso la sua tenda. Un’immagine che descrive la grande umanità e fratellanza che ancora c’è tra le persone che sono resilienti insieme. Ma c’è un dato ancora più drammatico».

Quale?

«L’infanzia negata. I bambini hanno lo sguardo ad adulto. Un giorno, in un ambulatorio di Medici Senza Frontiere, c’era una bambina di nove anni che mi ha detto che voleva soltanto morire per raggiungere sua mamma e che non ce la faceva più. Ho pensato: l’umanità ha perso. Trovo devastante il fatto che tantissimi bambini si porteranno dietro un dolore e una sofferenza infinita per tutta la vita».

Avendo vissuto esperienze umanitarie in più Paesi nel mondo, cosa ti porti dentro dopo il tuo servizio a Gaza?

«Ho lavorato in diversi conflitti, sono otto anni che faccio questo lavoro con Medici Senza Frontiere, ma non avevo mai vissuto un contesto come Gaza. Lì vedi mancanza di libertà, si vive in una prigione a cielo aperto da cui non c’è scampo. I droni sono sempre sulla testa, quel ronzio non ti abbandona mai. È un posto in cui non esiste più un luogo sicuro, in cui anche gli ospedali, anche gli operatori medico sanitari, anche il personale umanitario diventano dei bersagli, un posto in cui sembrano non esserci più regole. Ricordo che quando sono uscita, alla fine della mia missione, ho attraversato il confine con Israele. Ho guardato i campi verdi in lontananza, il cielo sereno e mi sono detta: questa è la libertà. Mentre dall’altro lato del muro continuavano a cadere le bombe. Mi sono chiesta come fosse possibile essere sotto lo stesso cielo. Quando finirà tutto questo, Gaza è da ricostruire da zero. Ma non sarà finita: bisognerà occuparsi dei disabili e dei bambini a cui è stata negata l’infanzia».

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