di Andrea Follini
America first! L’America prima di tutto. È il motto con il quale Donald Trump oramai otto anni fa vinse le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, trascinando in un sentimento introspettivo non solo i repubblicani ma anche gran parte della classe media americana prima democratica, privata delle proprie sicurezze, specie nel lavoro, così come le classi sociali più povere ed emarginate. Postumi di una crisi economica che ha investito gli Usa ancora nel 2008 e dalla quale il Paese ha fatto difficoltà a rialzarsi. Guardare prima all’esigenza degli Stati Uniti, rispetto alle (molte) esigenze del mondo; di un mondo letto all’occidentale, si badi bene, con valori che non ad ogni latitudine del globo sono condivisi. Trump, cavalcando l’onda di questo disagio e con un gioco politico che in più occasioni ha ripagato la sua intraprendenza, ha avvicinato a sé con il suo modo piuttosto sprezzante di rapportarsi con gli altri, un popolo americano di fede repubblicana che, come stiamo vedendo in queste settimane di primarie, lo sta rilanciando alla grande nel tourbillon delle presidenziali. Ciò non significa affatto che sia già dichiarato vincente alla prova di novembre. Restano ancora da definire infatti alcune vicende giudiziarie che lo coinvolgono, e non di poco conto, come l’accusa di aver fomentato le proteste del 6 gennaio 2021 che portarono all’assalto al Campidoglio, piuttosto che l’aver sottratto, portandoli presso la propria residenza privata, importanti e segretissimi dossier governativi. Sono alcuni dei procedimenti che attendono alla sbarra Trump nel 2024 e che potrebbero mettere, se vi sarà una condanna, l’ex presidente sotto una luce diversa rispetto agli elettori. Nello schieramento opposto un non certo vigoroso Biden resta l’alternativa progressista a “the Donald”, a dispetto della volontà espressa sottovoce da molti democratici, che avrebbero preferito un candidato più energico e dotato di maggiore carisma. Al di la della scelta di continuità o di ritorno al recente passato nella politica americana, è giusto però chiedersi come potrebbe cambiare la geopolitica mondiale se alla Casa Bianca dimorasse per i prossimi quattro anni uno o l’altro dei contendenti. E non sarebbe certo indifferente. Biden alla guida degli Stati Uniti significherebbe una continuità anche della politica estera Usa, con la stessa impostazione che ha caratterizzato tutte le amministrazioni americane, di ogni colore, a parte la parentesi trumpiana, ovvero una politica indirizzata alla presenza Usa nelle aree di conflitto ove gli interessi strategici degli Usa sono più sentiti, quindi sia in Ucraina che in Medio Oriente, ed un mantenimento in essere della Nato. Ben diversa la situazione con una amministrazione Trump; il tycoon, molto legato anche personalmente sia a Putin che a Netanyauh, saprebbe sicuramente trovare la chiave per un disimpegno americano nelle aree interessate, lasciando l’Ucraina al suo destino, ovvero alla consapevolezza di perdere gran parte dei suoi territori contesi con la Russia, ed il territorio palestinese senza un freno alla deriva imboccata da Israele. Ma, complessivamente, sarebbe proprio il ruolo degli Usa nel quadrante occidentale ad essere rivisto, per essere spostato molto di più verso il territorio del nuovo interesse americano, dove far sentire il proprio perso, economico e militare, ovvero l’indo-pacifico, con la volontà di contenere l’espansione dell’influenza cinese in quell’area (come del resto in Africa). Una situazione di questo tipo lascerebbe all’Europa una sorta di ruolo di garante, costringendola a rimodulare completamente la propria strategia, anche dal punto di vista militare, sia per contenere i conflitti alle porte di casa che per reinventarsi una diplomazia europea che, non si può negare, non è stata in questi anni all’altezza di un vero ruolo di mediazione. Questioni sul tavolo che andrebbero affrontate quale che sia l’esito delle elezioni americane, perché probabilmente anche con una vittoria di Biden, nonostante una maggiore affinità di obiettivi, il ruolo dell’Europa nello scacchiere mondiale andrà rivisto, ed anche quello dell’Italia al pari degli altri partner Ue. Ecco perché la necessità di un sistema di difesa unico ed una rinnovata diplomazia europea restano due elementi molto importanti, da affrontare subito dopo le elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento europeo, ma anche per sciogliere questi nodi sarà necessario attendere quale Europa uscirà dalle urne. Il 2024 si appresta quindi ad essere, nello stesso tempo, un momento importante per la democrazia, visto quanti Paesi andranno al voto per rinnovare la propria leadership, ma anche un anno di grandi incertezze, proprio per il medesimo motivo; situazione che non deve assolutamente vederci indifferenti, perché interlocutori diversi porterebbero a dover agire con politiche anche molto diverse alle nostre latitudini.