di Andrea Follini
C’è attesa per la possibile liberazione di trentaquattro ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Proprio gli ostaggi sono al centro delle trattative in corso a Doha; i loro parenti hanno chiesto, nel corso di una conferenza stampa svoltasi nel quartier generale del Forum delle famiglie a Tel Aviv, aiuto al presidente Trump, il quale non ha mancato di lanciare un ultimatum alle milizie palestinesi: la data del suo insediamento, il 20 gennaio prossimo, è il termine entro il quale gli ostaggi andranno liberati. Altrimenti, ha detto Trump, “scatenerò l’inferno”. Scettico il premier israeliano Netanyahu, secondo il quale sulla lista con i nominativi degli ostaggi presentata ai mediatori non vi sarebbe alcuna garanzia. Nemmeno quella di poter considerare ancora vivi coloro che vi compaiono. Forse la liberazione di una parte degli ostaggi in un contesto come questo, cioè grazie ad un intervento esterno, metterebbe il premier in una condizione di difficoltà, dimostrando la sua debolezza; ed è forse per questo che Netanyahu minimizza il valore della definizione di un possibile. Nulla quindi è da dare per certo, se non il mantenimento di una speranza che creino le simultanee condizioni di una ritrovata libertà per gli ostaggi, ma anche un cessate il fuoco nella Striscia, che significherebbe per gli abitanti di Gaza la possibilità di accedere agli aiuti umanitari, all’assistenza sanitaria, al cibo che solo un cessate il fuoco e l’allentamento dei controlli al valico di Rafah potrebbero consentire. Gaza è del resto ormai un cumulo di macerie; nonostante questo continuano i bombardamenti israeliani con l’intento di eliminare le ultime cellule di Hamas; uno scopo che sino ad ora ha procurato la morte a più di quarantacinquemila civili, ed un livello di sofferenza indescrivibile. E la situazione è tale che non si nasconde nemmeno più ciò che sino a qualche tempo fa si aveva almeno la decenza di negare: l’esercito israeliano ha ammesso di aver utilizzato un’ambulanza per infiltrarsi nel campo profughi di Balata in Cisgiordania, dichiarato dagli stessi militari dell’Idf come luogo sicuro, e qui sferrare un attacco nel quale, secondo fonti palestinesi, sarebbero morti diversi civili. Dalle Ong che ancora riescono a lavorare a Gaza e dalla Federazione della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, continuano intanto ad arrivare, inascoltati, appelli per consentire un minimo di umanità in quei luoghi. La situazione resta incandescente in tutto il quadrante. Nel sud del Libano l’esercito libanese e le forze di pace delle Nazioni Unite hanno ripreso il controllo della città di Naqoura dopo il ripiegamento dell’esercito israeliano. In Siria il nuovo leader Ahmed Al-Jolani sta tenendo più incontri, sia con le comunità cristiane che con leader stranieri per dimostrare che il Paese sta affrontando un nuovo corso, ma il futuro è quanto mai incerto fino a che nuove elezioni mostreranno se davvero Damasco vuole voltare pagina col passato o se nel Paese si è passati semplicemente da una dittatura ed un’altra. Importante è stata certamente la visita dei ministri degli esteri tedesco e francese, segnale di una ritrovata volontà dell’Unione europea di non restare al traino delle scelte di altre forze occidentali nell’area (leggi Stati Uniti e Gran Bretagna), bensì di recuperare un ruolo da protagonista. Resta più difficile sbrogliare la matassa Yemen, dove una guerra che dura da più di dieci anni, spesso dimenticata dalle cronache dell’Occidente, viene valutata con colpevole ritardo con tutta la sua complessità. Uno scacchiere, quello mediorientale, difficile da decifrare e da ricondurre alla tanto agognata tranquillità; quanto mai necessaria per ridare speranza a quelle popolazioni private da troppo tempo non solo del loro futuro ma anche della loro quotidianità. Sarà uno dei primi dossier sulla Resolute desk di Trump, e chissà se la risolutezza e la sfrontata determinazione sarà la chiave giusta per un cambio di passo, oppure se non farà che aumentare le tensioni e, conseguentemente, le sofferenze di interi popoli. Noi, che da queste pagine abbiamo con costanza raccontato la grave situazione mediorientale, riportando anche punti di vista non sempre (volutamente?) ripresi da altri media occidentali, come la cronaca di quanto sta succedendo in Cisgiordania, piuttosto che la condizione dei giovani palestinesi, raccogliendo da fonti dirette sul campo i drammi della carestia e quello sanitario che quei popoli stanno vivendo, restiamo convinti che non sia sufficiente mettere un punto e ripartire, per ottenere una pace duratura in Medio Oriente. Non si possono certo risolvere come per magia, decenni di odio e feroce contrapposizione. L’obiettivo deve sempre rimanere quello di garantire a ciascun popolo dell’area la propria libertà e la propria indiscussa sovranità. Solo il concretizzarsi di queste condizioni potrà garantire la sicurezza, la speranza per quelle genti. Un Occidente che intenda recuperare il suo ruolo di mediazione in favore della libertà e della giustizia, non può che cominciare da questo, da una attività diplomatica incisiva, pari a quella che un tempo lo caratterizzava, piuttosto che ergersi a giudice, mettendo a servizio di una parte la propria capacità bellica e tecnologica. Per questo spaventano le dichiarazioni di Trump ed i suoi modi spicci; perché la pace deve nascere dal diritto e dalla giustizia. Altrimenti sarà solo una pausa. Fino al prossimo massacro.