di Giada Fazzalari
Gianni Riotta è giornalista, scrittore docen- te universitario. Dagli Stati Uniti è stato per lungo tempo corrispondente per varie testate giornalistiche tra cui La Stampa, L’Espresso ed il Corriere della Sera, di cui è stato anche vice direttore; firma di punta del giornalismo italiano e internazionale, è profondo conosci- tore della politica americana e dei suoi mec- canismi. “Riottoso” è il nome del fortunato Podcast settimanale firmato da Gianni Riotta e realizzato per Repubblica con Luiss Datalab
La visita irrituale di Meloni al presidente eletto americano ha aperto ad una riflessione su come cambieranno i rapporti tra i due Paesi, Italia e Usa, ora che siamo alla vigilia della presidenza Trump. Lei cosa ne ha tratto?
«Solitamente le cancellerie sono caute nei rap- porti tra Paesi e invece questo è stato un gesto di risolutezza, di forzatura delle consuetudini del presidente eletto, quindi un gesto di diplo- mazia coraggioso. Il fatto che Trump le abbia dato subito spazio vuol dire che c’è un buon rapporto tra loro e tra la diplomazia italiana e americana, con Elon Musk mediatore e lo vediamo anche dai segnali che mandano, nelle luci e nelle ombre, gli intermediari di Musk in Italia. Il New York Times, come altre fonti a Mar-a-Lago e a New York, confermano che si sia parlato di Cecilia Sala. Meloni è consapevole che la giornalista italiana sia oggetto di un ricatto, cioè che sia stata sequestrata per lo scambio con il trafficante di armi iraniano svizzero Abedini, che gli americani vorrebbe- ro estradato per traffico di armi e gli iraniani vogliono liberato. Come ha fatto Putin con il giornalista del WSJ dalla Russia Evan Ger- shkovich e con la cestista americana Brittney Griner, sono ostaggi che arrestano con finte motivazioni per poi essere rilasciati».
La premier è andata in Florida per provare ad avere l’aiuto di Trump nella mediazione?
«Con l’Iran c’è davanti una difficile trattativa tra rilascio di Abedini e scarcerazione di Sala. Vedremo nei prossimi giorni cosa si sono detti con Trump, certamente è molto interessante che nelle stesse ore Bloomberg abbia rivelato che ci sarebbe l’avvio dell’accordo tra l’Italia e Starlink, la compagnia digitale di Musk, per 1,5 miliardi sulla rete. È una contemporaneità che va rilevata. Insomma, si tratta di una complessa partita politico-diplomatica e di business».
A proposito di questo accordo: è lecito os- servare, come tra l’altro hanno fatto i lea- der dell’opposizione, che l’accordo Starling rischia di essere un regalo – o una svendi- ta – dell’Italia all’amico Musk, una sorta di scambio…
«Vedremo quali saranno gli sviluppi. La fa- miglia Sala ha chiesto per adesso un po’ di riguardo dalla stampa. Quello che abbiamo appena commentato sono i fatti nella loro chiarezza»
Tornando al caso Sala. Molti osservatori hanno visto un nesso tra come l’Italia reagì sul caso Sigonella, cementificando quel protagonismo italiano che fu significativo con il governo Craxi, e come invece si è attivata la diplomazia del nostro Paese che, rispetto a quel caso è stata assai più debole. Vede un paragone pertinente tra i due casi?
«Il contesto è talmente diverso che è difficile fare un paragone. Se guardiamo le vicende dal punto di vista storico, le cose sono estremamente diverse. L’Italia allora aveva con il lodo Giovannone dei patti di intesa in Me- dio Oriente, delle amicizie e delle alleanze che erano diverse da quelle che avevano gli americani. In particolare Bettino Craxi è sta- to sempre amico del popolo palestinese, un alleato politico importante per l’Olp e per Arafat e si è sempre battuto per la loro causa. E però si era sempre battuto per un’evoluzione democratica del movimento politico palestinese. A Sigonella prese una decisione che tanti contestarono e che gli americani non apprezzarono».
Che ricordo ha di quella vicenda?
«Ero alla Casa Bianca quando Craxi fu ri- cevuto dal Presidente Reagan. Ricordo che dopo il colloquio tra i due presidenti, l’allora capo Ufficio Stampa di Craxi Antonio Ghi- relli disse sorridente agli inviati italiani che erano lì – il Corriere della Sera con Ugo Stil- le, L’Unità con Aniello Coppola, quindi stiamo parlando di grandi firme –: “Passata è la tempesta, odo augelli far festa”. Era passata la tempesta con Reagan perché Craxi si era battuto per i missili Cruise in Italia quando il Pci si era battuto contro l’istallazione di quei missili per rispondere ai missili sovietici SS20 nei primi anni ‘80. Craxi aveva rotto il fronte della sinistra sostenendo che i missili americani fossero la risposta ai missili dei sovietici e che quindi non bisognasse rompere l’equilibrio. Gli americani si convinsero che sì, Craxi fu quello di Sigonella e dell’Achille Lauro, ma che fosse altresì lo statista che fece schierare loro i missili e che quindi non dovessero rompere con lui. Stiamo parlando di due mondi diversi: quello della guerra fredda e questo mondo, più caotico, del dopo guerra fredda, in cui non c’è più un equilibrio di poteri».
Invece altri ci hanno visto il nesso con il caso Moro…
«Credo che questi paragoni storici, per chi non li ha vissuti come la maggior parte dei giovani oggi, siano fuorvianti. Il caso Moro fu l’unico caso in cui non si trattò per liberare un ostaggio. In quel caso ci fu un apparato composto da poteri italiani e poteri internazionali americani e sovietici che decisero che Moro doveva morire. Tutto il lavoro fatto per esempio dallo storico Miguel Gotor e dalle diverse commissioni parlamentari che si sono succedute, lo provano con grande chiarezza». Certo, in altri momenti storici come appunto a Sigonella, l’Italia dimostrò protagonismo e non asservimento, pur mantenendo l’amicizia con gli Usa. La strategia di Meloni è stata quella di non prendere iniziative, di non liberare Abedini o trattare subito con gli iraniani, ma di incontrare Trump e parlare delle possibili trattative e dell’estradizione o meno di Abedini. Una mossa azzeccata e che potrebbe funzionare. La risposta a tutto questo la vedremo nelle prossime ore. Se verrà estradato, rispetto a dove sceglierà di andare, allora vuol dire che c’è stata una trattativa. Io penso che abbia fatto bene a rompere le consuetudini e antici- pare i tempi perché Trump sia a conoscenza dei fatti».
Trump non ha veri alleati in Ue. Quelli che ha, sono leader screditati, come per esempio Orbàn. Pensa che Trump userà Giorgia Meloni come cavallo di Troia in Europa visto che i presupposti dei rapporti americani con l’Ue non fanno ben sperare?
«No, perché Meloni è una leader troppo ca- parbia per essere usata; semmai potrebbe ac- cadere il contrario perché Trump è cosciente che i leader come il possibile cancelliere di estrema destra austriaco o lo steso Orbàn, non possono portarlo direttamente al cuo- re dell’Ue. Meloni è invece accreditata con questo mondo da cui proviene, di destra, nazionalista e sovranista, ma al contempo ha dato un sostegno forte al G7, o all’appoggio all’Ucraina…»
Ecco, come si comporterà Meloni con l’Ucraina? Trump ha detto chiaramente che cesserà il sostegno non appena ci sarà il suo insediamento.
«Come corrispondente del Corriere della Sera per anni mi sono occupato di Trump. E ho capito che Trump è imprevedibile. Ha detto che non sosterrà l’Ucraina ma non ha detto in che termini. Trump è certamente meno ostile a Putin di quanto non lo fosse Biden, però l’idea che lui regali la vittoria a Putin non è scontata. Meloni, come tutti i leader europei, una volta che Trump scoprirà le sue carte, agirà di conseguenza».
Pensi che non ci sia il rischio che l’Europa possa soccombere nel rapporto con l’America di Trump?
«Io penso che l’Europa sia in ritardo nel fare i conti con la realtà. L’Europa sta dormendo ancora un sonno diplomatico che è quello del 1989. La Guerra fredda è finita e l’Europa è rimasta in quel mondo. Quando Trump dice che l’Europa deve spendere di più per la difesa ha ragione, perché gli europei vivono an- cora in un mondo in cui gli americani provvedono alla difesa e gli europei commerciano. Questo mondo è finito. Ci saranno dazi con l’amministrazione Trump, ma ci sarebbero stati dazi anche con l’amministrazione Harris, perché viviamo ormai in un mondo sovranista, di chiusura e di protezionismo. L’Europa dovrebbe aumentare le spese per la difesa e l’investimento nelle tecnologie. Oggi il 40% del budget europeo va ancora all’agricoltura, quando dovrebbe spendere per l’intelligenza artificiale, oltre che fare regole sul mondo digitale senza avere nessuna grande piattaforma digitale. In un contesto del genere non vedo l’Europa che si sveglia».