Medio Oriente, è interesse dell’Europa risolvere la questione palestinese

di Luca Cefisi

In Medioriente assistiamo all’emersione di diverse faglie di conflitto. C’è il conflitto israelopalestinese, che è un conflitto, per la terra, inclusa Gerusalemme, che si risolverà con un accordo sulla terra, ma che mobilita fondamentalisti ed estremisti (Hamas, evidentemente, e d’altro canto il movimento dei coloni israeliani e l’estrema destra dei Ben Gvir, ma anche quella spregiudicata di Bibi). C’è la faglia curda, che passa dalla Turchia e dalla Siria. C’è un conflitto tra Arabia Saudita e Iran, dove le due potenze hanno cercato di intestarsi la rappresentanza di due culture storiche, quella sunnita e quella sciita, e che ha avuto lo Yemen come sanguinoso campo di prova; peraltro, esistono nel mondo sciita altre forze (in Iraq, quella dell’ayatollah Sistani, noto da noi per il suo incontro con papa Francesco), e nel campo sunnita per esempio i Fratelli Musulmani, che hanno piuttosto nel Qatar e nella Turchia i loro alleati, ma anche la tradizione hascemita (Giordania) storicamente invisa ai sauditi, rispetto ai quali è assai più aperta e pacifica. C’è, o c’è stata, la guerra del Daesh, senz’altro l’espressione più feroce e lunatica del salafismo sunnita, che è diventata contro tutti. Ci sono i residui autoritarismi “laici” in Egitto e Tunisia (dai quali il governo Meloni mendica la chiusura dei flussi migratori, offrendo loro una cambiale in bianco su tutto il resto. Fermiamoci qui, può bastare. Il punto, anche in vista delle elezioni europee, che richiamano a una riflessione sul ruolo nostro, dell’Unione Europea, è cosa possiamo fare, di utile, e di buono, sia dal punto etico che da quello del realismo politico (i due criteri non sono necessariamente in contraddizione). Questo anche considerando l’apparente debolezza di leadership degli Stati Uniti, che non sembrano essere stati in grado di indicare una soluzione della disastrosa situazione a Gaza. Questo da un lato significa porsi il problema di un’Europa più assertiva e influente, dall’altro, necessariamente, in quale direzione orientare questa eventuale maggiore assertività, che, diciamo così, non dovrebbe essere quella indicata dagli editoriali dei Rampini e dei Cerasa. E’ compito e interesse dell’Europa la risoluzione dell’occupazione dei territori palestinesi (compresa Gerusalemme Est),  a dispetto dell’estrema destra (Orban, Salvini), che essendo antieuropea – e a suo modo però interconnessa – si allinea con Trump e Milei a Nethanyahu (non a “Israele” in astratto, ma alla concreta destra israeliana): questo, tra l’altro, ripropone oggi il tema del consolidamento di un soggetto palestinese attendibile; correttamente Sanchez ha annunciato un’iniziativa, ormai necessaria, per il pieno riconoscimento dello Stato di Palestina, oggi guidato da Abu Mazen, da parte spagnola, come già fece la Svezia socialdemocratica a suo tempo. Definire le condizioni di soluzione del conflitto israelopalestinese vuol dire scongiurare il tentativo di estenderlo: è equivoca una narrazione che riduca la complessità mediorientale a uno schieramento di (presunti) amici dell’Occidente, che avrebbe peraltro in prima fila la monarchia assoluta saudita (un regime tetragono di cui si dovrebbero prendere con le pinze il brillante marketing e le costose pubbliche relazioni). Equivoci del resto sono stati gli accordi di Abramo, che mettevano tra parentesi la questione palestinese, derubricata a problema finanziario, secondo la visione del genero di Trump e di Mohammed Bin Salman. D’altro canto, questa narrazione presuppone il consolidamento, per conseguenza, di un “asse del Male” contro cui condurre una guerra di civiltà: paradossalmente, facendo un favore alle peggiori fazioni iraniane, che non vedono l’ora di intestarsi una guerra santa. Occorrerà al contrario navigare la complessità e le differenze, attivare ogni strumento diplomatica, politico, umanitario, in sintonia con l’ONU, parlando sia con il mondo sunnita che con quello sciiita, inclusi i moderati in Iran (dove esiste un embrione di dialettica politica, e dove come europei abbiamo canali di interlocuzione utili e da salvaguardare), e con Libano ed Iraq, che pagherebbero l’estensione del conflitto e di cui vanno sostenute le fragili istituzioni, evitando di assumere come nostri (o dell’Occidente, nientemeno!) interessi e priorità saudite o quelle dell’attuale governo israeliano, che ha anch’esso, in paradossale consonanza con Khamenei, a proclamare una guerra esistenziale: si tratta invece, per l’Europa, di scongiurare la prospettiva di un conflitto eterno, irrisolvibile, dove gli elementi simbolici e ideologici e irrazionali prevalgano su quelli concreti, sui diritti dei popoli e delle persone. Solo così potremo porre su basi concrete e razionali, oltre che etiche, un’azione di pace nella regione.

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