Matteotti non è un santino, da lui una lezione politica ed ideale

di Lorenzo Cinquepalmi

Era prevedibile e inevitabile che, nell’anno del centenario, Giacomo Matteotti sarebbe stato sulla bocca di molti. Dal Pd al M5S, da Schlein a Conte, la rincorsa a rivendicarlo come riferimento ideale pare inarrestabile e, fatalmente, travalica gli spazi di discussione di leader e forze politiche, coinvolgendo ambiti contigui, come è accaduto in questi giorni col caso Scurati. Di quell’episodio merita di essere sottolineata non solo l’evidente intenzione censoria della destra reazionaria arrivata al potere, preoccupante per l’assonanza col clima di un secolo fa, ma anche un esempio in più della tendenza a fare di Matteotti solo una specie di lapide del martire, spendibile genericamente a sostegno di forme d’opposizione povere di struttura, basate assai più sull’emozione che sul pensiero. Un modo di contrastare la destra che, in verità, è quanto di più lontano da Matteotti si possa immaginare. Infatti, l’attualità della visione politica e del metodo che il martire socialista stava elaborando cent’anni fa, vengono tenuti in ombra dall’enfasi con cui se ne ricorda il sacrificio, a scapito, però, della consapevolezza necessaria che quel sacrificio non fu conseguenza, solo, dell’eroica resistenza alla prevaricazione fascista, ma, anche e soprattutto, del fatto che Matteotti costituiva davvero il più grande pericolo per Mussolini. In quel 1924 la violenza squadrista aveva un solo vero nemico, in Italia: l’ideale della democrazia come modo per realizzare la giustizia sociale. Una prospetti va che, tra gli oppositori al fascismo, non erano in molti a eleggere come modello alternativo al nascente totalitarismo mussoliniano, quel modo di usare il potere generatore di una fascinazione ancora oggi molto seduttiva dalle parti dell’attuale maggioranza di governo. Ecco perché Matteotti era molto più pericoloso di tanti altri perseguitati e, nel tempo, annientati o annichiliti, come Gramsci, Giolitti, Sturzo. Pericoloso al punto da imporne l’assassinio politico. Ai troppi che, grottescamente come Calenda, cercano di fare di Matteotti un comodo santino, ignorandone la lezione politica e ideale, alla falsa sinistra e alla destra, vera oggi come allora, si indirizzano, attraverso cento anni, le sue stesse parole: voi siete per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze; non c’è nulla di comune tra voi e noi. Ecco, è così, proprio come lo era allora: con il populismo, collocato che sia a destra o sinistra, Matteotti e il socialismo non hanno nulla a che fare. E chi ne usa strumentalmente l’immagine, abbia ben chiaro chi egli sia stato: Matteotti e il socialismo democratico riformista sono un binomio inscindibile, sono la stessa cosa. Dunque, lo si rispetti; non lo si usi per attirare l’attenzione su proposte politiche che rappresentano la negazione di ciò per cui egli è vissuto e ha sacrificato la vita. Non lo si trasformi nel bollino del centenario, utile per legittimare l’azione di chi progetta solo di sostituire il proprio populismo a quello imperante. Eleggere Matteotti a proprio simbolo non può non significare che il suo socialismo viene assunto come ideale e come progetto politico. E questo, tra coloro che oggi si riempiono la bocca col suo nome, non sta certo avvenendo.

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