La vita a Gaza e l’ipocrisia dell’Occidente

di Jacopo Nannini

A sei mesi da quel 7 ottobre, il bilancio di questo segmento di conflitto israelo-palestinese è terribile sul piano umanitario e politico. Si continua a dibattere su possibili risoluzioni e misure di interruzione del conflitto, ma le fotografie di Gaza che mostrano un paesaggio lunare e il trionfo della morte, ci mostrano tutti gli errori nei nostri peggiori incubi. La corretta condanna dei fatti dello scorso 7 ottobre, universalmente e trasversalmente pronunciata, non è stata seguita da una altrettanto tempestiva condanna nei confronti di una reazione di Israele che ha incarnato una sanguinosa e indifendibile punizione collettiva. Negli ultimi tempi, quando le immagini da Gaza sono divenute troppo dure per essere ignorate, un piccolo lumicino di speranza si è accesso e le perplessità sulle scelte di Israele hanno sostituito le precedenti litanie. Soltanto la morte degli operatori umanitari, bersagliati dall’esercito Israeliano, ha fatto sbuffare il Vecchio Continente, mostrando tutta l’ipocrisia di un Occidente affaticato, isolato, che arriva a condannare la violenza ingiustificata solo quando le vittime sono in casa nostra, testimoniando, senza nascondersi troppo, che le vite dei palestinesi in fondo contano ben poco. Questi mesi hanno segnato tutta la crisi identitaria di una sinistra alle porte delle elezioni europee più complesse dalla istituzione dell’Europarlamento, confermando la triste tendenza di riduzione dei corpi intermedi ad agenzie di comunicazione: si arriva a condannare e dare centralità ad una vicenda, come la sproporzionata reazione di Israele, solo quando i fatti sono mediaticamente cosi risonanti che non si ha alternativa. Si abdica, completamente, al ruolo centrale di imprimere rilevanza politica e storica a dei fatti tracciando un cammino da percorrere, fornendo così una visione appartenente al proprio paradigma valoriale. Le difficoltà di questi mesi pongono allora i socialisti tutti davanti all’ineludibile necessità di riflettere. Si osserva in primis, senza in alcun modo sminuire i fatti orribili e ingiustificati, l’errore di segnare il 7 ottobre come dies a quo di un conflitto regionale che affonda le sue radici in un problema secolare, cosi come l’utilizzo di una lente di analisi, per i fatti in Palestina, inadeguata per valutazioni su un luogo segnato da un clima radicalmente avvelenato. Come possiamo affrontare una seria analisi dei fatti avvenuti in quel fazzoletto di terra, al cospetto di un costante richiamo ad un preciso valore semantico della parola terrorismo, senza interrogarci sulle condizioni in cui sono cresciute intere generazioni di palestinesi? “Ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse alcuna prospettiva di dare ai propri figli un avvenire, sarebbe un terrorista” disse con il suo freddo pragmatismo Andreotti che potrebbe oggi essere bollato come violento dei centri sociali dalla retorica comica della truppa meloniana. Allora è evidente in primo luogo la necessità di recuperare un metodo di lettura delle ragioni del Mediterraneo e del mondo arabo tutto, senza schiacciarsi su paradigmi eurocentrici, recuperando il valore della politica come strumento di costruzione della coesione dei popoli piuttosto che l’arroccamento dietro miti di “guerre sante” e di valori di un “Europa cristiana” che nei fatti si esauriscono nella contemplazione del presepe. La presenza dei socialisti in Europa deve essere orientata alla rivitalizzazione delle radici profonde di quel dialogo con il Medio Oriente, in tempi dove emerge una spicciola islamofobìa e la reductio ad unum di un mondo di due miliardi di credenti. Orbene, dopo troppi mesi di ambiguità, i socialisti europei devono essere in campo per costruire e imporre le condizioni della pace e del riconoscimento di uno Stato palestinese, la cui sovranità non è certo determinata delle scelte della destra israeliana. Possiamo condurre questa lotta senza timore, non avendo come socialisti mai subordinato il diritto dei popoli alla libertà e all’autodeterminazione ad alcun diktat o dipendenza del momento. Come a Budapest nel’56, come a Praga nel ‘68, come in Cile nel ’73, come anche in questi due lunghi anni accanto all’Ucraina contro la furia imperialista putiniana.

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