La tregua su Gaza non ferma le armi in Palestina

di Andrea Follini

Gaza regge un fragile tregua. Liberate le prime donne israeliane ostaggio dei terroristi di Hamas, in cambio di un numero ben più nutrito di prigionieri e prigioniere palestinesi segregati da tempo nelle carceri in Israele, ora gli accordi tra le parti in causa, ottenuti con la mediazione del mondo arabo e degli americani, sono in fase di analisi, per verificarne la tenuta ed il rispetto. Ma dire che questa tregua iniziata due settimane fa segna la pace nella regione, significherebbe non “vedere” i tanti morti che ancora insanguinano quelle terre. Le armi, che da qualche settimana tacciono lungo l’ormai distrutta Striscia di Gaza, ridotta ad un cumulo virulento di macerie, continuano invece imperterrite a far sentire il loro grido di morte in Cisgiordania; l’altra metà della Palestina, quella che nel tempo ha risentito di meno dell’influenza di Hamas, solidamente in mano all’Autorità Palestinese, non ha mai smesso di essere teatro di battaglia. Ne abbiamo più volte scritto anche nelle pagine di questo giornale; quella che fino a ieri era una lotta derubricata a contrasto locale tra i coloni, in gran parte immigrati dall’est Europa e colonna portante del sostegno all’ultra- destra israeliana, ed i palestinesi che in quella parte di territorio avevano ricercato una vita meno rischiosa di quella che si viveva nella Striscia, oggi è emersa in tutta la sua atrocità. Quella in Cisgiordania è stata una parte di guerra volutamente dimenticata; lontana dai riflettori, puntati invece a Gaza, ha mietuto nel tempo centinaia di vittime civili, la cui unica colpa è stata quella di trovarsi lungo la strada di coloni affamati di nuove terre. Il cuore della politica espansionistica del governo di Netanyahu sta tutta li, in quelle colline. Dove le forze di sicurezza di Tel Aviv si girano dall’altra parte se qualche abitazione araba viene data alle fiamme dai coloni o se, anche per motivi futili, la “vivacità” degli stessi, che girano perennemente armati, causa qualche morto. Ora che Gaza sta vivendo una parentesi di presunta quiete, è in Cisgiordania che si è spostata l’attenzione dell’esercito israeliano. Che qualche giorno fa ha dato il via ad una massiccia operazione militare, denominata “Muro di ferro” che ha visto in particolare colpire la zona nord del territorio con la città di Jenin ed il suo vasto campo profughi che ospita più di 14mila persone. Non ha fatto che agitare le acque, poi, la decisione presa dal nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump il quale, tra i tantissimi ordini esecutivi siglati nelle sue prime ore da Presidente, ha firmato anche quello che prevede la revoca della possibilità di sanzionare i coloni israeliani in Cisgiordania. Un messaggio fin troppo chiaro, che l’Autorità Palestinese ha subito denunciato, temendo che tale impunità possa portare i coloni a sentirsi maggiormente liberi di decidere ogni sorta di azione contro il popolo palestinese che abita quel territorio. Nel quadro generale nel quale vive la propria quotidianità il Medio Oriente, diventa assai difficile quindi considerare la tregua in atto, un passo avanti significativo verso la pace. Tutto ciò rischia di essere piuttosto un momento di transizione, deciso certamente per portare a casa i rapiti e dare quindi una risposta al crescente malcontento della società civile israeliana, ma senza che il governo Netanyahu, così legato a doppio filo con la destra estrema, si dimostri troppo debole. Un equilibrio per nulla stabile, quindi, dal futuro incerto. Da subito la destra ha giudicato l’accordo come una cessione al ricatto; e non è escluso che questo atteggiamento abbia conseguenze anche nelle dinamiche politiche del Paese. La necessità di agevolare il cambio di presidenza americana, consentendo a Trump di intestarsi una vittoria rispetto alla quale, peraltro, non ha alcun merito, è l’altra faccia della stessa medaglia. Il Presidente intende affrontare la questione mediorientale “a modo suo”; e lo ha già dimostrato indicando la via secondo la quale, a suo insindacabile giudizio, la situazione si potrebbe risolvere con facilità: spostando i palestinesi della Striscia tra Egitto e Giordania. Oltre due milioni di persone “trasferite” (deportate?) d’imperio in due Stati sovrani. Questo offre la misura di quale sia la considerazione di Trump rispetto al diritto internazionale. E soprattutto da quale parte penda la sua presunta giustizia. Parole, quelle di Trump, che sono risultate miele per le orecchie di quella destra israeliana che da sempre vede Gaza come territorio di prossima espansione dello Stato di Israele, nelle cui aspirazioni il popolo palestinese è solo un impiccio, per di più pericoloso. Non può che sollevare leggere sulla stampa israeliana che la sinistra nel Paese comincia una seppur lenta ed ancora troppo flebile mobilitazione, chiedendo le dimissioni del premier, più volte sollecitate anche dal popolo di “piazza degli ostaggi” a Tel Aviv, il luogo delle manifestazioni contro il governo dei familiari dei rapiti e della società civile. Una maggiore presa di posizione di quella sinistra che per troppo tempo è stata pressoché invisibile. La sinistra che da sempre è stata favorevole al processo di pace tra i due popoli e contraria alla colonizzazione dei territori occupati. Una sinistra che sembra aver smarrito, anche lì, la propria missione, sino a diventare minoritaria.

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