di Giada Fazzalari
Il film Hammamet ha segnato uno spartiacque nel “comune sentire” su Bettino Craxi, il leader socialista su cui grava una damnatio memoriae che non ha eguali nella storia d’Italia e su cui, ancora oggi, c’è un giudizio controverso e non definitivo. L’obiettivo che il film sembra avere raggiunto è quello di riequilibrare una ricostruzione viziata di Craxi. Una sorta di spinta ad un riconoscimento collettivo dell’azione politica del leader e del profilo umano, segnati dall’epilogo tragico che conosciamo. L’intuizione del film – di Pepito produzioni e diretto da Gianni Amelio, con la straordinaria interpretazione di Pierfrancesco Favino – ha avuto l’effetto di far riaffiorare riflessioni più serie ed obiettive già nel 2020 con il suo esordio al cinema, ed una accelerazione in questo 25mo anniversario. Agostino Saccà, classe ’44, calabrese di Taurianova – “pensa un po’ da terra di mafia a capitale del libro!”, ci dice sorridendo non nascondendo il profondo legame con la sua terra d’origine – è fondatore di Pepito produzioni. Nasce come giornalista negli anni ’70. Ha una lunga e importante carriera nei vertici dell’azienda in Rai – responsabile della Comunicazione, direttore di Rai 1, Direttore generale e infine alla guida di Rai Fiction – in questa intervista all’Avanti! della domenica ricorda il suo impegno, da ragazzo nella federazione dei giovani socialisti e poi nel Psi di Craxi. Nelle sue parole si avverte il legame con quella politica e i suoi protagonisti che hanno segnato una stagione in cui i partiti erano una cosa seria.
Direttore Saccà, il film Hammamet è stato visto da milioni di persone. Può essere un segnale del riaccendersi dell’interesse verso Bettino Craxi, a venticinque anni dalla scomparsa?
«Credo proprio di sì. È anche il segnale del rimpianto per i politici capaci. Craxi è stato l’ultimo vero politico, come tra l’altro lo ha definito Cazzullo, che non è certamente un giornalista schierato. Io credo che gli italiani abbiano sentito l’assenza, negli ultimi vent’anni, di una classe politica seria, guidata da un grande leader. E soprattutto di un progetto riformista, di cui il Paese avrebbe un estremo bisogno».
Insomma, c’è stata la necessità di elaborare il lutto…
«Si è trattato proprio di questo. Ci si è accorti che perdere uno statista di quel rango è stato un lutto che, misto al rimpianto, si è manifestato con un nuovo interesse verso il leader. E così milioni di persone hanno visto Hammamet in tv».
Ve lo aspettavate?
«Un successo del genere non era prevedibile».
Come è nata l’idea di fare un film sugli ultimi mesi del leader socialista nella città tunisina?
«L’idea è venuta, in prima battuta, al regista, Gianni Amelio. Non osavo chiederglielo, ma a differenza di quanto sarebbe potuto accadere qualche anno prima, avevo capito che quello era il momento giusto per fare un film su Craxi».
Perché?
«Perché nel Paese ci sono rabbia e molta delusione. L’Italia ha perso, dagli anni ’90 ad oggi, venti punti di ricchezza e di produzione del reddito. Il film riprende Craxi che al Congresso socialista della piramide dice che l’Italia a guida socialista era diventata la quinta potenza industriale del mondo, superando l’Inghilterra e la Francia».
Quest’ultima battuta nel film non compare.
«Io avrei voluto che nel film ci fosse quel passaggio. Amelio ha preferito evitarlo».
Ma è quello che accadde.
«L’Italia, in dieci anni, di cui sette a guida Craxi e con il protagonismo del Partito Socialista, fu al centro di una serie di importanti iniziative riformatrici. È significativo che siano state ricordate dal Presidente della Repubblica Mattarella proprio in occasione del messaggio inviato nel venticinquesimo anniversario dalla scomparsa, dove ha riconosciuto che le riforme di Craxi hanno dato una prospettiva importante al Paese. Gli italiani oggi sono consapevoli che in quella stagione si stava meglio, che gli stipendi erano più alti e c’era maggiore potere d’acquisto. Il fatto che Inghilterra e Francia siano più di venti punti sopra l’Italia non è un caso, ma sintomo dell’assenza di quella politica».
Con Tangentopoli i partiti tradizionali sono stati spazzati via. Allora c’era il primato della politica. Se ne sente la mancanza, a suo avviso?
«Sì, si sente soprattutto la mancanza di una guida. I partiti avevano un peso sull’opinione pubblica, tant’è che allora la partecipazione al voto era tra l’80 e il 90 per cento; oggi l’affluenza è crollata sotto il 60 per cento. È una manifestazione di non gradimento della classe politica che è arrivata dopo Tangentopoli. Quando sono scomparsi i partiti tradizionali sono arrivati i partiti populisti, le lobby e la finanza internazionale. E senza partiti solidi, legati agli interessi e ai bisogni dei cittadini, anche la ricchezza pubblica rischia di andare all’asta. Guardi ad esempio Telecom, era una delle più grandi aziende telefoniche del mondo. Prima di Mani Pulite non aveva debiti. Quando è finita nelle mani di classi dirigenti industriali e finanziarie del Paese, quindi della grande finanza, ha accumulato miliardi di debiti fino ad essere svenduta».
Craxi non aveva un buon rapporto con quelle classi dirigenti legate alla finanza…
«Le ha tenute sempre alla porta. Le racconto un aneddoto: quando Craxi si recò a Portofino per una visita privata, Montezemolo voleva fargli incontrare la famiglia Agnelli. Si rifiutò sostenendo che non avesse nulla da condividere. La distanza di Craxi con la grande finanza era enorme».
Ci sono voluti 25 anni ma si stanno riscoprendo molte cose…
«Sugli “angeli di Mani Pulite”, per esempio, è andata a finire che uno di loro è stato condannato da un tribunale per rivelazioni d’ufficio. Craxi aveva detto: “verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro”. Parole che suonano quasi come una profezia».
Perché quella classe politica doveva in un certo modo sparire dalla scena?
«Perché era di impiccio verso un indebolimento dell’Italia, che era cresciuta troppo di fronte agli alleati, Francia e Inghilterra, ed era la concorrente diretta della Germania sul manifatturiero. Più in generale, Craxi guidava un Paese che stava cambiando profondamente ed era protagonista sul piano internazionale. Ha persino avuto il coraggio di affrontare un referendum sulla scala mobile, vincendolo e portando la disoccupazione dal 17 al 5 per cento».
Qual è il ricordo più vivido che ha di Craxi?
«Un ricordo molto bello. Eravamo ad un comitato centrale al Midas, io ero un ragazzo della federazione giovanile socialista e con altri ragazzi – ricordo Marango, Di Donato, Villetti, Tempestini – ci trovammo a discutere animatamente. Avremmo fatto di lì a poco un Congresso e le tesi erano se costruire l’alternativa socialista insieme ai comunisti o meno. Bettino era appena uscito dalla sala centrale, seguito da un codazzo di compagni di partito e giornalisti. Si accorse di noi, sollevò gli occhiali portandoli alla fronte, mollò tutti e si avvicinò. Voleva sapere a cosa fosse dovuta quell’animosità. La ragione del suo gesto era semplice: era visceralmente attirato dalla passione politica, ancor più perché arrivava dai ragazzi. La politica per lui era totalizzante».
Qualche altro ricordo?
Quando facevo il giornalista e non più politica attiva, partecipai ad un evento del Psi. Ricordo che un socialista siciliano chiese conto a Craxi di opportunità che potevano nascere dal rapporto di Berlusconi con i socialisti. Lui rispose: “pensi davvero che Berlusconi sia un compagno socialista? È un bottegaio”. Usò questa espressione che col senno del poi mi colpì molto».
Un ruolo essenziale all’epoca ebbe la stampa. Oggi c’è una riflessione più seria su come si comportarono i giornalisti?
«Oggi molti fanno mea culpa. Lo ha fatto Giampaolo Pansa prima di morire. Feltri, che coniò l’espressione “il Cinghialone”, ha ammesso di non averci capito niente. All’epoca era un anticraxiano, un po’ moralista, che si era fatto travolgere dai fatti. Oggi si è pentito».
Un bilancio. Venticinque anni sono un tempo ‘giusto’ per restituire i meriti a Craxi come leader politico?
«Credo proprio di sì. Serve però un’iniziativa politica. Serve che i socialisti che sono intorno al Partito Socialista e all’Avanti siano consapevoli che il vento può tornare a soffiare nelle loro vele. Il lutto è elaborato anche nel Paese. Ma serve una forte iniziativa riformista – tra Pd e Forza Italia c’è una prateria da occupare – prima che sfugga dalle mani della sinistra democratica e liberal socialista».