di Alessandro Amoroso
Chi più spende, meglio spende. Così recita un vecchio adagio, non sempre vero ma che ha un fondo di verità. Però, se parliamo di politiche sociali, diventa una verità quasi assoluta. Investire denaro contro fragilità e povertà dovrebbe essere la priorità di qualsiasi maggioranza parlamentare, indipendentemente dal suo colore politico. Perché una società più equa e con meno persone in bisogno assoluto è una società più sana, più coesa, più produttiva ed efficiente. Il “Rapporto Povertà 2024”, presentato dalla Caritas Italiana lo scorso 12 novembre, è una lucida e coraggiosa discesa negli inferi della povertà e delle fragilità italiane. I numeri ci dicono che il numero dei poveri assoluti è aumentato, così come anche quello dei poveri relativi, ovvero di quelli che, pur trovandosi al di sopra della soglia di povertà, potrebbero scendere al di sotto a causa di una spesa improvvisa, come potrebbe essere un incidente o la scoperta di avere una malattia grave. Fin qui, purtroppo, nulla di nuovo. Così come la Caritas certifica quello che già molti sospettavano: l’eliminazione del Reddito di Cittadinanza (RdC) per sostituirlo con l’Assegno d’Inclusione (AdI), oltre alla riduzione dell’importo medio dell’assegno (da 526 euro in media del primo a 480 euro mediani del secondo), ha anche generato oltre 300 mila persone ormai prive di una misura di sostegno universale. La Caritas li ha chiamati, con termine evocativo, “gli esodati del RdC”. Esodati che, nel primo anno dell’era post Reddito, sono stati presi in carico dalle organizzazioni private, sia laiche che religiose, che si occupano di contrasto alla povertà. In pratica lo Stato italiano, che storicamente è uno dei Paesi che investe di meno nel sociale tra quelli industrializzati (siamo al quinto posto nel G7 ed appena nella media Ue in questo settore), ha allegramente scaricato sulle spalle dei privati l’onere di prendersi cura di centinaia di migliaia di fragili. Nello stesso tempo, da quando è in carica, il Governo Meloni ha gradualmente spostato la spesa sociale verso le famiglie numerose ed il disagio abitativo. Che si tratti di due sottocategorie particolarmente vulnerabili non c’è dubbio, ma è altrettanto vero che non rappresentano tutta la platea dei poveri. Anzi, a ben vedere non sono neanche le due categorie più numerose tra i poveri italiani. Ai primi posti, infatti, si trovano coloro che hanno problemi di povertà economica (78,8%) e persone con problemi occupazionali (45,9%). Solo al terzo posto si trovano cittadini con problemi alloggiativi (22,7%). Il totale delle varie voci supera il 100%, per il semplice motivo che ci sono soggetti che hanno più di una fragilità. In sostanza, dunque, sono la povertà economica e la mancanza di lavoro, o il lavoro povero, il problema principale dell’Italia. Ci si dovrebbe quindi concentrare su questi problemi ed affrontarli, senza cercare di suddividere i poveri in sottocategorie che spesso sono più che altro delle creazioni artificiali e fittizie, e che rischiano solo di complicare inutilmente le cose. Andare a fondo nell’esame dei problemi significa anche indagare bene i fenomeni di cui tanto si parla, come il disagio abitativo. Dal rapporto Caritas emerge come, per oltre l’80% dei casi (80,8% per la precisione), i poveri italiani abbiano un alloggio. Il nostro è infatti, storicamente, un Paese con un basso numero di senzatetto. E questa è sicuramente una buona notizia. Nello stesso tempo, però, scopriamo che solo l’11,6% (percentuale che scende ad un misero 4,2% tra gli stranieri residenti) dei poveri sia proprietario di casa. Oltre la metà, invece, sono in affitto da privati. Se questa è la fotografia della situazione, allora è facile intuire cosa accade: il proprietario di casa reclama affitti non pagati, oppure vorrebbe aumentare il prezzo della locazione, ma l’inquilino non può far fronte all’aumento delle spese e fa resistenza. Cosa possono fare le istituzioni, dunque? Possono intervenire in vari modi, a seconda della gravità della situazione, rimborsando le utenze domestiche od una parte della locazione. Oppure possono offrire soluzioni abitative a prezzi calmierati e convenienti presso strutture pubbliche o convenzionate. O altri interventi ancora, che aiutino gl’inquilini poveri ma non gravino sulle spalle degli affittuari privati. Che spesso, oltre a non avere alcuna colpa delle difficoltà dei loro inquilini, rischiano a loro volta di trovarsi in una situazione difficile. Insomma, le istituzioni possono intervenire in molti modi. L’importante è che si impari a conoscere il fenomeno, non si giochi a fare gli struzzi con la testa sotto la sabbia, e che si voglia contrastare la povertà in quanto tale. E, quindi, non solo come fenomeno che colpisce le famiglie numerose, o qualunque altra categoria che sembri “meritare” le attenzioni particolari della maggioranza politica di turno.