di Andrea Follini
Non cessano gli attacchi dell’aviazione israeliana nella Striscia di Gaza. Secondo i militari di Tel Aviv, destinatari di questi attacchi sono cellule terroristiche pronte a colpire il territorio israeliano. Come spesso vediamo accadere, però, il risultato di queste missioni è ben altro. Medici Senza Frontiere, l’Ong che da tempo presta il proprio aiuto sanitario alle popolazioni martoriate a Gaza, denuncia l’ennesimo attacco che ha colpito il cortile dell’ospedale Al Aqsa a Deir Al Balah, dove erano accampate le persone sfollate dalle loro case prima che le stesse venissero abbattute. È stato l’ottavo attacco al complesso ospedaliero dal marzo di quest’anno. Far diventare le strutture sanitarie bersagli delle incursioni aeree israeliane, ha prodotto il risultato che Al Aqsa è uno degli ultimi tre ospedali funzionanti, ma a capacità assai ridotte, a Deir Al Balah, dove i sanitari mettono a disposizione la propria assistenza, come possono e con estrema difficoltà, il più delle volte senza medicinali adeguati, a circa 750mila persone. A nulla stanno servendo gli appelli che le Ong internazionali che lavorano a Gaza perché si fermi il conflitto. Così come inascoltati sono gli appelli che arrivano dalla Federazione della Croce Rossa e Mezza Luna Rossa, che nel tempo ha pagato un prezzo altissimo in termini di operatori sul campo morti mentre prestavano servizio con le ambulanze o negli ospedali. Appelli ai quali più volte abbiamo dato spazio anche da queste pagine. Appelli ai quali si deve aggiungere quello di Scott Anderson, direttore dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa da anni di prestare aiuto e sostentamento ai palestinesi di Gaza. Anderson, durante una recente intervista ad Euronews, ha dichiarato che a Gaza non esiste più un luogo sicuro; nemmeno le “save zone” indicate da Israele hanno più questo requisito. “Le parti in conflitto non rispettano e non risparmiano i siti che dovrebbero essere sicuri per i civili – ha dichiarato Anderson – compresi gli ospedali e le scuole”. Una situazione già disastrosa, dopo più di un anno di guerra e distruzioni, con alle spalle già più di 43mila morti soprattutto tra i civili, e della quale non si intravede minimamente la fine. E che tenderà, se ancora fosse possibile, a peggiorare con l’arrivo del secondo inverno di conflitto che renderà ancora più complessa la situazione dei tanti civili lasciati senza casa, senza assistenza, senza cibo ed acqua e privi di cure. Il recente licenziamento del ministro della difesa israeliano Gallant, sostituito in fretta e furia con il “falco” già ministro degli esteri Katz, ha forse ancora più inasprito l’intento del governo israeliano nel continuare nel conflitto sino al raggiungimento di tutti gli obiettivi di Tel Aviv. Che non sono solo la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma sembrano essere altri, più inquietanti, se anche la stampa israeliana comincia ad interrogarsi sulla classificazione di questa guerra. Michael Brizon su Haaretz non usa giri di parole nel suo pezzo titolato “Forse Israele sta davvero commettendo un genocidio?”, nel quale esamina la coincidenza dell’agire del Governo Netanyahu con l’elenco degli atti che uno Stato od un popolo debbono commettere perché siano considerati autori di un genocidio, secondo il diritto internazionale. Il fatto che un termine, già così terribile solo a pronunciarsi, venga preso in esame, è sintomo di una ritrovata coscienza. Così come anche ciò che sta accadendo nelle forze armate israeliane, dove ci si comincia ad interrogare se davvero ogni azione intrapresa, ogni comando che arriva dalle alte gerarchie militari, non violi il diritto umanitario. E nel qual caso, se quell’ordine vada eseguito oppure sia dovere, non opzione, per ogni militare non eseguirlo e denunciarlo. È la teoria della black flag, il mancato rispetto di un ordine ricevuto quando palesemente illegale. Il trasferimento dei palestinesi civili dal nord della Striscia con la conseguente subitanea distruzione delle loro abitazioni, lasciando un intero popolo vagare per un territorio circoscritto già densamente popolato, senza cibo e assistenza, rientrerebbe in questa visione. Anche di ciò, che se ne cominci a parlare in Israele può essere un segnale positivo di un cambio di passo e di atteggiamento su tutta la questione palestinese. Ma soprattutto un’emersione dall’abisso morale nel quale la guerra di Gaza, per volere del suo governo, ha trascinato un intero popolo.