di Redazione
Mentre ci stiamo avvicinando ai nove mesi di conflitto nella Striscia di Gaza tra Hamas ed Israele, molte sono le novità sul piano politico e militare che interessano quest’area mediorientale. Sono ancora centoventi gli ostaggi nelle mani dei terroristi di Hamas e quarantatre di questi sono stati dichiarati morti da fonti palestinesi. L’esercito israeliano continua i bombardamenti e le incursioni a Rafah nel tentativo di liberarli. Ma sempre più preoccupante si fa il fronte nord, al confine con il Libano, dal quale Hezbollah non cessa il lancio di missili contro il territorio israeliano, con pronta risposta delle batterie e dell’aviazione di Tel Aviv. Se la questione assumesse contorni più definiti e vi fosse l’apertura di un nuovo vero e proprio fronte con il Libano, per Israele si prefigurerebbe la simultanea necessità di gestire l’attuale conflitto a Gaza, a prevedere il contenimento del movimento sciita a nord e a mantenere l’attuale controllo (di cui mai si parla abbastanza) con la Cisgiordania. Uno scenario che lo stesso presidente dello Stato maggiore congiunto degli Stati Uniti Charles Brown non ha esitato e definire scoraggiante. I rapporti tra il premier Netanyahu ed il governo americano sono tornati ad essere accesi, dopo il ritardo dell’invio ad Israele di armamenti di precisione voluto dal presidente Biden. Ma continuano a non essere buoni anche il rapporti del premier con i suoi cittadini, che continuano a chiederne le dimissioni. Così come anche i suoi collaboratori ed i vertici militari, chiedono una revisione degli obiettivi, invitando il governo a pensare ad una strategia che guardi anche a dopo la fine dei combattimenti, non solo all’obiettivo attuale di distruggere la capacità militare di Hamas. Lo stesso capo del consiglio per la sicurezza nazionale di Tel Aviv, Tzachi Hanegbi, ha chiesto al governo di pensare di sostenere una leadership locale a Gaza, capace di convivere con il vicino Israele, senza pensare ogni giorno a come uccidere i cittadini israeliani. Segno evidente che qualcosa nella linea di comando si sta muovendo. A completare il quadro possono essere inserite anche le parole della moglie di Netanyahu, Sara, pronunciate durante un incontro avuto con un gruppo di familiari di rapiti, secondo la quale suo marito sarebbe nel mirino di un colpo di stato organizzato dai vertici dell’Idf, l’esercito israeliano. Ciò non fa altro che accrescere la condizione di caos nel Paese; e lo indica bene Einav Zanguaker, genitore di uno degli ostaggi del 7 ottobre: “Invece di fare di tutto per salvare vite umane, Netanyahu sta diffondendo cospirazioni deliranti ed è impegnato a incitare e seminare divisioni. Se questo è ciò che Netanyahu pensa ed è così che vengono gestite le cose, come facciamo a meravigliarci se non c’è un accordo sugli ostaggi e che il Paese stia andando a pezzi? Oggi è già chiaro che non ci sarà alcun accordo e non ci sarà alcuna rinascita per Israele finché Netanyahu sarà al potere”. Parole molto chiare, che si uniscono a quelle dei tanti manifestanti contro il governo di destra che da mesi riempiono le piazze in tutto il Paese. Sembra proprio che la strada del destino politico di Netanyahu sia segnata e che nemmeno l’attesa di una cessazione del conflitto sia ora il limite cui intravedere un suo allontanamento dalla guida del Paese. Il tempo delle elezioni anticipate, probabilmente si avvicina.