La guerra tra politica e giudici continua

di Lorenzo Cinquepalmi

Nec metu nec spe. Senza timori e senza aspettative. In questa espressione latina c’è l’essenza di come dovrebbe rapportarsi con l’alto ufficio di magistrato colui che ne riceva l’investitura. In questi giorni invece, cosa abbiamo visto? Spataro che dà il segnale a Milano per la passeggiata eversiva dei magistrati fuori dall’aula in cui si inaugura l’anno giudiziario, Colombo che esce dal frigorifero a rigirotondeggiare, Gratteri che snobba l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Napoli per non ascoltare il ministro Nordio, magistrato passato al nemico. Per finire col presidente della Corte d’Appello di Palermo Frasca, che arriva a negare che Falcone fosse favorevole alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Chi si farebbe giudicare serenamente da un giudice così, disposto a sostenere che il sole sorge a occidente? Ma cosa difende veramente la magistratura organizzata, al di là delle tonitruanti dichiarazioni di difesa della Costituzione e della democrazia, credibili come un’aurora a ponente? L’evidente condizione di privilegio sociale ed economico che conseguono all’ingresso in magistratura hanno sempre avuto, e purtroppo più non hanno da circa trent’anni, il naturale contrappeso nell’assoluta riservatezza e anonimato del magistrato, necessari per garantire non solo la sostanza, ma anche l’apparenza di imparzialità che la società vuole siano il carattere essenziale della funzione giudiziaria. La progressiva personalizzazione, la perversione del cortocircuito tra magistrati e giornalisti, l’ansia di legittimazione del sistema correntizio dell’ Anm, hanno prodotto la situazione attuale in cui si radica il sospetto che dietro a molte iniziative giudiziarie non ci sia più il solo dovere di svolgere la propria funzione in modo imparziale, con disciplina e onore, ma la bramosia di ruolo che si traduce in notorietà, per capitalizzare la notorietà in carriera (gettando discredito sulla magistratura seria). Il fatto che il fenomeno abbia coinvolto dapprima e soprattutto i pubblici ministeri, insieme con l’introduzione del processo accusatorio nel 1989 che ha messo accusa e difesa su di un piano di parità, ha fatto crescere il bisogno che la terzietà del giudice rispetto ai pubblici ministeri non fosse solo nominale. Proprio il processo accusatorio ha dato al pubblico ministero un ruolo di protagonista nelle fasi istruttorie anteriori al processo e poi nel processo stesso, fenomeno che rendeva ampiamente prevedibile l’esigenza di assicurare che il rapporto tra giudice e accusatore fosse del tutto identico a quello tra giudice e difensore. In questo, la carriera comune, il comune organo di autogoverno, la possibilità di transitare disinvoltamente da una funzione all’altra, hanno giocato un ruolo di grave lesione della percezione (ma anche della sostanza) della terzietà di chi giudica rispetto a chi accusa. Come spesso ironizzano gli avvocati, è come giocare una partita in cui l’arbitro indossa la stessa maglia del tuo avversario. In un simile stato di cose, finalmente giunge in parlamento la riforma che ogni socialista avrebbe voluto veder fare dalla sinistra e che, invece, è promossa dalla destra. Essa, però, rimane un fondamentale passaggio di civiltà, non solo giuridica. La reazione dei magistrati l’abbiamo vista tutti: la sceneggiata dello sventolio, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, di quella stessa Costituzione che con quel gesto stavano offendendo, calpestando la disciplina e l’onore a cui sarebbero vincolati, mentre restano aggrappati con le unghie e con i denti a quel sistema che garantisce a una modesta frazione di loro le gratificazioni delle carriere costruite dalla tutela correntizia nel Csm. Si renderanno conto, la gran parte dei magistrati che, statisticamente, sono esclusi da quel sistema, che stanno solo menando acqua al mulino dell’impenetrabile oligarchia interna che caratterizza oggi l’ordine giudiziario? O la carota di un’improbabile cooptazione nella casta della casta basta per renderli tutti ciechi, muti, sordi e obbedienti alla cupola correntizia? Perché è evidente che nessuno dei magistrati oggi in servizio possa fantasticare, come invece i soldati di Napoleone, di avere il bastone di maresciallo riposto in fondo allo zaino. Quel bastone finisce nelle mani di quelli di essi che vengono scelti dalla cupola per perpetuarne il potere. Ed è per questo che la riforma in discussione, che nemmeno sfiora l’indipendenza dei magistrati, è così necessaria per quella libertà e quella democrazia che un pugno di oligarchi in toga sostiene falsamente di voler difendere. Una sinistra vera lo capirebbe.

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