La flebile e insopprimibile speranza della pace

di Pia Locatelli

Le voci dell’Internazionale socialista attraverso la dichiarazione del suo Presidente Pedro Sanchez, del PSE e della Direzione del PSI sono unanimi nella condanna dell’attacco terroristico di Hamas, nella domanda di rilascio incondizionato degli ostaggi, nel diritto di Israele a difendersi, nell’esprimere dolore per le migliaia di vittime di questa guerra terroristica e solidarietà alle famiglie che hanno subito lutti: donne, uomini, bambini dall’età di tre mesi agli 85 anni sono stati uccisi, feriti, picchiati, violentati. Così ci scrivono le compagne israeliane preoccupate di far pervenire un’informazione veritiera alla comune famiglia socialista; ci chiedono di diffondere le informazioni nella loro drammaticità per numeri e brutalità, perché questa tragedia non sia né sottovalutata né messa in conto come uno dei tanti momenti critici della storia di questa parte di mondo. Dall’olocausto in poi il popolo ebraico mai aveva subìto una tale perdita di vite umane nello stesso giorno. Il 7 ottobre 2023 è una data che segna un prima ed un poi per tutti, popolo palestinese compreso, a sua volta vittima di questo attacco da parte di Hamas, l’organizzazione nemica di entrambi questi popoli; dobbiamo separare la sorte dei palestinesi da quella di Hamas, anche dei palestinesi che vivono nella striscia di Gaza e che molto probabilmente, se fossero oggi chiamati ad esprimersi attraverso il voto in elezioni libere, non rinnoverebbero ad essi il mandato come invece avvenne nelle ultime, lontane elezioni del 2006. Difficile dire cosa possiamo fare per contribuire a fermare questa tragedia; la sensazione è di trovarci tutti sull’orlo di un baratro. Tutti siamo a rischio perché questo è un conflitto che riguarda certamente la regione medio-orientale ma, insieme ad essa, sono coinvolti il mondo, l’Europa, il nostro Paese. Mentre non è difficile prendere posizione – come ha detto il cancellerie Scholz, il posto dove stare in questo momento è a fianco di Israele -, dare indicazioni a chi la tragedia la vive sulla propria pelle è certamente compito arduo. Ci chiediamo con amarezza se ci voleva questo orribile massacro per capire che per evitare una situazione peggiore, serve una risposta alla condizione dei palestinesi. Per questa ragione dobbiamo prima di tutto separare “la sorte” del popolo palestinese da quella di Hamas anche nella striscia di Gaza, che Hamas ha dominato per troppi anni, certamente non con risultati brillanti se il 50% della popolazione di Gaza, oltre due milioni di abitanti, è disoccupata e l’80% vive di aiuti internazionali. Dobbiamo rimettere in agenda la questione palestinese fino ad oggi accantonata dai più, restituendo “legittimità” all’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania ma che è stata totalmente emarginata, anche per sua responsabilità. L’ANP in questa guerra sembra essere totalmente priva di ruolo; da tempo è esclusa dalla costruzione di una prospettiva di pace per la regione, una speranza nata ormai trent’anni fa dagli accordi di Oslo, attraverso un processo per step successivi, il primo dei quali fu la costituzione di un’Autorità palestinese, non ancora uno Stato, con capitale amministrativa a Ramallah. Un processo interrotto dall’assassinio di Rabin del 1995, dalla sconfitta del suo successore Peres nelle elezioni l’anno dopo, dal fallimento di Camp David dopo il ritorno dei Laburisti al governo, dalla seconda Intifada. Insomma un continuo tentativo di far “resuscitare” il processo di pace, che non avanza anche per l’indebolimento continuo della sinistra israeliana e il parallelo rafforzamento di formazioni israeliane di estrema destra che hanno consegnato il Paese nelle mani di Netanyahu e del suo pessimo governo. Israele ha diritto a difendersi ma il come conta. Le prossime settimane determineranno se la guerra farà sprofondare il Medio Oriente nel caos oppure se, nonostante le atrocità di Hamas, Israele potrà iniziare a creare le basi per la stabilità regionale e un giorno per la pace. Israele ha scelto comprensibilmente di sferrare l’offensiva di terra ma la sua portata e il come avverrà determinerà il futuro del “dopo questa guerra”. Questa è la scelta fondamentale che i politici israeliani dovranno ora affrontare. I leader israeliani hanno la pesante, difficile responsabilità di mitigare il loro comprensibile desiderio di vendetta con un calcolo sugli interessi di lungo periodo del loro Paese e per la regione intera. È possibile per Israele, unica nazione mediorientale democratica, seppur di democrazia imperfetta, conservare questo tratto distintivo e il proprio spirito civile? Oggi ogni progetto di dialogo e di pace sembra sepolto ma noi non possiamo rinunciare ad immaginare un Medio Oriente pacificato. Una pace che può essere costruita attraverso la soluzione dei due Stati e dei due popoli, che si sta tentando da trent’anni, senza escludere altre opzioni possibili: la proposta avanzata qualche anno fa da Pannella di due Stati federati, oppure la soluzione della costruzione di uno Stato unico, fondato sul riconoscimento di cittadinanza e di pari diritti per chi abita in quel territorio, a prescindere dall’etnia e dalla religione; oppure ancora la proposta di Yossi Beilin, negoziatore degli Accordi di Oslo, della Holy Land Confederation” che, ispirandosi in qualche modo al modello dell’Unione Europea, consente a cittadini di ciascuno dei due Stati di vivere sull’altro lato del confine che li separa come residenti permanenti. E’ difficile in questo tragico momento immaginare di far ripartire questo processo ma anche solo mantenere viva la speranza di poterlo costruire dopo questa tragedia è alimentare una flebile ma insopprimibile speranza.

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