Medio Oriente. Il dialogo possibile, la convivenza necessaria

di Lorenzo Cinquepalmi

Su questa espressione ottocentesca, coniata da un lord inglese, si sviluppò il progetto sionista di riunire in Giudea la diaspora di Israele. L’espressione, nel senso che ha nella nostra lingua, può dare l’impressione che la Giudea fosse considerata una regione disabitata. Chi la coniò non era così rozzo: il senso dell’espressione era che la Palestina fosse una terra senza nazione, abitata da tribù arabe non coagulate in una patria, una terra in cui l’innesto del popolo senza terra avrebbe innescato il processo di formazione di una nazione. L’esperienza dimostra che, per molte ragioni, la cosa non è riuscita, se non in minima parte, perchè se è vero che gli arabi israeliani vivono in Israele con gli stessi diritti degli israeliani ebrei, eleggono parlamentari e hanno accesso a ogni posizione pubblica, è altrettanto vero che i governi israeliani si sono sempre opposti al rientro di centinaia di migliaia di arabi palestinesi fuggiti da Giudea e Samaria dal 1948 in poi in conseguenza delle ripetute guerre arabo israeliane, per lo più scatenate dagli arabi, per effetto delle quali gli israeliani vittoriosi hanno occupato altre terre, altrettanto popolate da arabi palestinesi, in cui hanno praticato una politica di insediamento di coloni ebrei. Dalla caduta del muro di Berlino, con un afflusso in Israele di un’enorme massa di ebrei dai paesi ex sovietici, soprattutto russi, la demografia e gli equilibri politici del paese sono cambiati nettamente. Nel 2000 un sesto della popolazione israeliana risultava nata in Russia, e si trattava, in larghissima maggioranza, di ultraortodossi che, politicamente, si sono collocati nella destra, anche estrema. E’ l’elettorato che ha sostenuto in modo decisivo il potere prima di Sharon e poi di Netanyahu. Parallelamente, la condizione disperata in cui vengono tenuti i palestinesi, cacciati, affamati da chi li governa, vessati e bombardati dagli israeliani, ha fatto crescere nella politica palestinese, fino alla fine del secolo scorso ancora egemonizzata da Al Fatah e da Arafat, nuove fazioni legate al fondamentalismo islamico, coagulate in Hamas. Quindi, nel campo israeliano, il ruolo equilibratore della tradizione laburista, quella di Ben Gurion, Golda Meyer, Yitzhak Rabin, Shimon Peres, viene emarginato dai mutamenti demografico-politici. E nel campo palestinese, la tradizione laica e internazionalista di Al Fatah è progressivamente esautorata da Hamas. La situazione, oggi, è molto intricata: le opinioni pubbliche arabe di molti Paesi sono ottusamente antisemite e questo conduce le elite, per restare al potere, a convogliare fiumi di denaro verso Hamas e ogni altro movimento antisemita. Analogamente, la leadership della destra israeliana radicalizza lo scontro con i palestinesi in cerca di consenso elettorale e di supporto da parte delle comunità ebraiche dei paesi occidentali, specularmente votate all’annientamento del problema palestinese. Non è un caso se il punto più alto nel lungo tentativo di risoluzione del conflitto si è avuto con gli accordi di Oslo del 1993, quando Rabin e Peres per Israele, e Arafat per l’OLP, consolidarono i principi del riconoscimento reciproco e della ricerca dell’equilibrio tra le ragioni di due parti che si impegnavano ad attribuirsi pari dignità. Ed è ancor meno un caso che il partito laburista israeliano, in cui militavano Rabin e Peres, e Al Fatah, il partito di Arafat, fossero entrambi forze laiche, socialiste, accomunate dal rapporto con l’Internazionale e con il socialismo europeo. E non è sicuramente un caso se i due leader dei due popoli a cui si deve il sogno della pace tra israeliani e palestinesi non sono morti di vecchiaia: Rabin è stato assassinato da un ebreo ultraortodosso e Arafat è stato verosimilmente avvelenato da fondamentalisti islamici. Cosa rimane, oggi, di quel sogno, sintetizzato nell’espressione “due popoli due stati”? La stessa forza del sogno di allora, in condizioni molto difficili ma non più difficili di quelle che hanno sempre caratterizzato il non-equilibrio arabo israeliano. Certo, la politica del massiccio insediamento di coloni ebrei in Cisgiordania rende difficile il consolidarsi dello Stato palestinese, espropriato dell’autorità sul suo territorio. I lanci di missili da Gaza e le rappresaglie israeliane assicurano lunga vita al conflitto. Pare un cortocircuito irresolvibile. E tuttavia, il ruolo delle organizzazioni politiche internazionali, non solo socialiste, può essere determinante per riportare israeliani e palestinesi a far credito al dialogo, se lavoreranno con gli strumenti della politica, per far crescere nei due campi opinioni pubbliche più favorevoli alla tolleranza e al dialogo: due popoli e due stati è ancora attuale.

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