Intervista a Sergio D’Elia: «Nelle celle violenza, suicidi e degrado. Servono pene alternative al carcere»

Intervista di Lorenzo Cinquepalmi

Sergio d’Elia è stato deputato della Rosa nel Pugno; è segretario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” e coordinatore della presidenza del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito. È uno dei più impegnati attivisti nelle lotte per i diritti civili dei detenuti, dalle battaglie per l’abolizione della pena di morte a quelle per la riforma del sistema di esecuzione delle pene detentive.

 

La condizione carceraria in Italia è oltre ogni soglia di accettabilità. La gente percepisce il dato emergente: suicidi e rivolte. Tu visiti, con “Nessuno tocchi Caino”, circa 120 carceri ogni anno. Cosa c’è oltre questi dati di cronaca?

«La libertà è un diritto assoluto e inalienabile per tutte le dichiarazioni dei diritti e costituzioni, prima tra tutte la nostra. Le condizioni per le quali una persona può esserne privata non possono per nessuna ragione superare i limiti fissati dalle leggi e dai principi generali. Invece è questo che accade oggi: trattamenti inumani, degradanti, intollerabili per chiunque. Cancellazione del diritto alla salute, ai rapporti umani, alla speranza. Più di un secolo fa Turati, prendendo la parola in difesa dei diritti delle persone private della libertà, come facciamo noi oggi, definì le carceri “cimiteri dei vivi”. Sono passati cento venti anni e la situazione non è cambiata: solo dall’inizio dell’anno, 68 persone detenute si sono tolte la vita, e altre 98 sono morte per cause naturali che di naturale hanno ben poco, considerato che vengono tenute in carcere persone malate e che l’assistenza sanitaria è quasi inesistente. La condizione in cui versano le carceri italiane, per sovraffollamento, mancanza di personale e assenza di spazi di lavoro e rieducazione, concentra dentro le loro mura un tasso di violenza inaudito: violenza praticata dallo Stato oltre i limiti imposti dalla Costituzione, e violenza che, per reazione, i detenuti praticano su loro stessi (al numero impressionante di suicidi vanno sommate le centinaia di atti di autolesionismo ), sugli altri detenuti, sulle cose, e sulle altre vittime del carcere: gli agenti e operatori del servizio penitenziario, i cui suicidi sono in numero tale da imporre il riconoscimento che la situazione è ormai fuori controllo».

Dalle pagine di questo giornale, i socialisti, oltre al tema moralmente ineludibile della necessità di un provvedimento generale di clemenza come presupposto per una riforma radicale del sistema, hanno anche proposto di differenziare strutturalmente la condizione di coloro che rispondono di reati violenti da coloro che, invece, hanno infranto la legge senza ledere l’incolumità delle persone. Una differenza che, successivamente, è stata valorizzata anche nell’ordine del giorno Costa, votato alla Camera da maggioranza e opposizione. L’idea consiste nell’escludere automaticamente dal carcere, entro certi limiti di pena, gli autori di reati non violenti, ponendoli da subito in detenzione domiciliare con obbligo di lavoro, proprio o di pubblica utilità. Tu cosa ne pensi?

«Del totale della popolazione carceraria circa tre quarti sono condannati definitivi. Per questo l’orientamento del ministro, almeno fino a oggi concentrato esclusivamente sui detenuti in carcerazione preventiva, non può essere risolutivo. La riduzione della popolazione carceraria si ottiene soprattutto portando il maggior numero possibile di condannati definitivi verso forme di espiazione della pena diverse dalla carcerazione. In questo senso, la vostra proposta, oltre a ottenere un indispensabile decongestione del sistema, apre una breccia verso un sistema dell’esecuzione penale in cui il carcere cessi di essere centrale per avviarsi verso la residualità riservata ai casi veramente (e non astrattamente, come invece è oggi) incompatibili con la sicurezza dei cittadini. E verso forme di esecuzione delle pene che, pur mantenendo il valore dell’espiazione, riducano drasticamente, attraverso il valore rieducativo del lavoro, il tasso di recidiva tra i condannati dopo la fine della pena. Le nostre carceri sono davvero ancora cimiteri di vivi che, in quanto palestre di violenza, si traducono in fabbriche di recidivi. Dati statistici consolidati dimostrano che il tasso di recidiva tra chi sconta la pena in carcere è di trentacinque volte superiore rispetto a chi riesce ad accedere a forme di esecuzione della pena non carceraria; forme che sono ugualmente punitive, perché comportano limitazioni fortissime delle libertà individuali, ma che abbattono la componente della violenza e la compensano con la speranza, indirizzando i condannati verso un futuro in cui il rischio che assumano nuovamente comportamenti antisociali è drasticamente ridotto».

I reati connessi agli stupefacenti come dovrebbero essere classificati, in una prospettiva come quella che abbiamo descritto?

«Non si può classificare con l’accetta: è evidente che chi traffica commette un reato contro l’incolumità delle persone, mentre, all’estremo opposto, il tossicodipendente che cade nella spirale del microspaccio e dei piccoli furti, è una vittima della sua condizione e di un sistema che fatica a non considerare i tossicodipendenti semplicemente reprobi immeritevoli di soccorso. La legge già prevede una graduazione di disvalore tra i due estremi costituiti, al vertice, da associazioni a delinquere di trafficanti di droga che ne movimentano quantità enormi, e alla base da chi cede quantità modeste, meritevoli di un giudizio di pericolosità attenuato. Certo, andando a monte, forme di liberalizzazione del consumo, già sperimentate in altri Paesi europei, depotenzierebbero di molto il problema, con tutto il corollario di condotte criminali che ne deriva».

L’opinione pubblica largamente prevalente pare conferire molta più importanza al contenuto afflittivo della pena, che alla sua funzione rieducativa. Del resto, le rilevazioni sul numero degli italiani favorevoli alla pena di morte mostra, negli ultimi decenni, un preoccupante loro aumento. L’opinione pubblica si rapporta con i condannati in modo consapevole o emotivo.

«È evidente che la componente emozionale abbia una forte incidenza nel sentiment degli italiani rispetto a questo argomento. Del resto, la stessa violenza da cui è connotato il sistema penitenziario viene subliminalmente somministrata ai cittadini dai media: il Grand Guignol della cronaca nera servita agli spettatori e lettori con dovizia di particolari macabri e impressionanti (che è ciò che oggi fa innalzare gli ascolti e, quindi, in un cortocircuito senza fine, gli incassi pubblicitari) scatena la ferocia nei sentimenti dei cittadini, allontanandoli in generale dalla capacità di comprendere la potenza di un sistema imperniato sulla redenzione e la sua utilità sociale. Che la dinamica sia emozionale lo dimostrano esperimenti fatti compiendo rilevazioni successive su di un campione di spettatori durante un programma televisivo di un’ora e mezza, in cui si parte dalla descrizione di delitti efferati e gradualmente si introduce la descrizione di esempi di riabilitazione e reinserimento sociale dei condannati. L’iniziale maggioranza forcaiola del campione si affievolisce fino a diventare minoranza alla fine del programma. Dunque, il tema dell’informazione è fondamentale, perché le riforme, anche quelle più giuste e necessarie, non si fanno senza il consenso dei cittadini».

In conclusione, ritieni che vi sia concretamente una possibilità, nell’attuale Parlamento, per approvare provvedimenti capaci di migliorare concretamente la condizione delle carceri?

«Proprio per quanto abbiamo appena detto a proposito del consenso dei cittadini, l’attenzione dei media per la drammatica condizione dei detenuti determina una probabilità concreta che si arrivi a fare un primo passo nella direzione giusta. Il voto trasversale sull’ordine del giorno Costa ne è un sintomo. Noi continueremo a lavorare ogni giorno, come del resto fate anche voi, perché l’attenzione dei cittadini verso questo tema sia sempre più alta; e daremo il nostro contributo propositivo al dibattito sui provvedimenti che saranno messi in discussione. Aldo Moro, nei suoi corsi universitari di diritto penale, voleva che gli studenti entrassero in carcere per prepararsi all’esame; Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, e tanti altri che il carcere lo avevano conosciuto sotto il fascismo, sostenevano che l’unica riforma credibile del carcere è la sua abolizione. Noi guardiamo a quell’orizzonte, consapevoli che raggiungerlo comporta un percorso lungo e accidentato, ma convinti che la sola punizione significhi sommare dolore passato a dolore presente e a dolore futuro».

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