Intervista a Michele Ainis: «Il premierato? E’ a rischio la democrazia costituzionale. E’ il tempo della “capocrazia”, c’è insofferenza verso il dissenso»

Intervista di Giada Fazzalari

Il dibattito sulle riforme targate Meloni entra nel vivo e le opposizioni – Pd, Psi, M5S, + Europa e associazioni – soprattutto dopo la bagarre in aula alla Camera della settimana scorsa, decidono di scendere in piazza “a difesa della Costituzione e dell’unità d’Italia”. Per Michele Ainis, professore di diritto pubblico a Roma Tre e scrittore, il premierato è una riforma sgangherata e pasticciata. Una riforma colpita dalla malattia del “quasismo”.

Ha visto le risse in aula della settimana scorsa? Il Parlamento usato come ring. Che le è parso?

«Mi è parso che da bipolarismo siamo passati a un “bi-muscolarismo”. Gli episodi di rissa in aula ci sono sempre stati, non è la prima volta. Ricordate, ad esempio, la Lega che esibiva il cappio in aula? Vedo però che c’è una distanza, un abisso, tra il comportamento – una volta si sarebbe detto il contegno – che si usava anni fa in un’aula parlamentare, e quello che invece viene assunto oggi. Il parlamento è il salotto della Nazione e bisognerebbe dare il buon esempio. Probabilmente c’entra pure il veleno dei social, che ci hanno abituato a uscire dai gangheri e a non morderci mai la lingua. Se facciamo un confronto tra ieri e oggi, stiamo sicuramente peggio oggi»

Gli episodi ci sono sempre stati ma c’è una novità rispetto al passato: i parlamentari di maggioranza hanno aggredito parlamentari di opposizione e non viceversa. Forse è un inedito.

«Questo è vero ed è giusto osservarlo. Io ci vedo anche una proiezione di altri episodi che sono accaduti negli ultimi mesi. Una volta contro la Bortone, una volta contro Saviano. Cioè l’insofferenza verso il dissenso, scambiare il governare per il comandare»

A proposito, lei vede il rischio che ci sia un attacco all’informazione libera o addirittura un ritorno alla censura?

«Io spero che il nostro sistema abbia degli anticorpi per difendersi. C’è anche da registrare, per onestà intellettuale, una deriva nell’informazione che ormai è totalmente schierata. Si è già consapevoli, leggendo i giornali, di trovarsi di fronte a un giornale marcatamente di destra o di sinistra che fa da megafono a questo o quello schieramento. Un tempo poteva esserci, sì un’inclinazione. Ma non una maglietta da tifoso o da supporter come accade oggi. L’informazione, mi hanno insegnato, dovrebbe essere sempre critica verso il potere. Io poi mi sono sempre sentito di destra quando c’era un governo di sinistra e di sinistra quando c’era un governo di destra (sorride). Con questo voglio dire che il ruolo dell’intellettuale, e la stampa ne fa parte, deve essere sempre un ruolo critico verso il potere e invece vedo molto servilismo. La stampa va difesa ma si dovrebbe difendere anche da sé»

E’ la settimana delle riforme. Nel suo libro, “Capocrazia”, sostiene che l’Italia è un paese che ama le rivoluzioni ma affossa le riforme. Perché? 

«Ama le rivoluzioni verbali, aggiungo. Nel primo capitoletto del libro mi sono divertito a raccontare una serie di errori anche linguistici della riforma Berlusconi o della riforma Renzi. Un altro termometro della nostra “temperatura” è la nevrosi. Il voto è diventato molto volubile, perché qualsiasi cosa succeda, a un certo punto ci infatuiamo di questo o quel leader. È stato Renzi, poi Monti, poi Grillo e oggi è Meloni. Ma questo leader o quel leader, però non dura mai. D’altra parte, noi abbiamo osannato Mussolini e poi l’abbiamo messo a testa in giù».

È questa quindi la “capocrazia” di cui parla?

«La “capocrazia” di cui parlo da un lato è questa, cioè il fatto di innamorarci del salvatore della patria. Poi c’è un fatto di sistema. La “capocrazia” è anche allevata da una serie di interventi normativi a partire dalla legge elettorale. Il Porcellum, del 2005, ci ha regalato i listini bloccati. Significa che tu non fai il deputato o il senatore perché hai un seguito di una parte del tuo territorio, ma lo fai perché il tuo segretario di partito decide chi metterti nei listini bloccati e mandarti in Parlamento. Il Parlamento ha così perso credibilità e prestigio perché ci vanno perlopiù i maggiordomi pronti magari con il pugnale ad accoltellare il leader quando cade in disgrazia, perché questa è l’altra faccia del servilismo. I partiti poi non hanno delle regole che garantiscono la democrazia al loro interno perché la legge sui partiti non è mai stata approvata».

È la settimana delle riforme targate Meloni. Nel suo libro ha definito la riforma del premierato: “pasticciata sgangherata”. Perché?

«Intanto è un modello che non è né presidenziale né parlamentare. È quasi presidenziale è quasi parlamentare. Il “quasismo” è una delle nostre malattie. E cioè il fatto di cercare di prendere un pezzo da un sistema, un pezzo dall’altro – a volte prendendo le cose peggiori- e poi fare una cosa che non sta in piedi. Del premierato il vero problema è che vengono messe tutte le fiches su un piatto, e il piatto è il ruolo del Presidente del Consiglio lasciando vuoti gli altri piatti. Nel momento in cui la maggioranza viene blindata – cioè non puoi cambiare maggioranza nel corso della legislatura perché c’è appunto una fatwa contro i ribaltoni – allora a quel punto il Parlamento diventa una sorta di prolungamento del potere del governo. Cioè non è più un altro potere ma è un’appendice del potere governativo. Così lo si indebolisce, anzi lo si riduce a un votificio dei provvedimenti decisi dal presidente del consiglio la cui elezione diretta ovviamente oscura il ruolo dei ministri. C’è soltanto un capo che tra l’altro indebolisce il Presidente della Repubblica, un effetto inevitabile».

Contro la riforma del premierato, dell’autonomia differenziata e proprio per effetto di ciò che è accaduto la settimana scorsa alla Camera, l’opposizione ha deciso di scendere in piazza. Sembra che ci sia un’inedita unità a sinistra.

«Io non sono mai stato d’accordo con chi lancia l’allarme sui fascisti al potere. Vedo però, oltre a comportamenti arroganti e maldestri, un allarme sulla tenuta della democrazia costituzionale. Un allarme che contatta forze politiche che si riconoscono in alcuni valori democratici condivisi. A mio avviso l’effetto vero però sono stata le elezioni europee, perché hanno segnato un successo della sinistra sul centro del centrosinistra, stabilendo intanto delle gerarchie all’interno dell’opposizione. Il centrodestra, ad esempio, l’ha sempre avuta».

Senza però che si corra il rischio dell’autosufficienza che nel passato non ha fatto bene.

«Io non credo che l’attuale segretaria del maggiore partito di opposizione possa cadere in questo errore, perché ha sempre fatto discorsi di inclusione e perché lo stesso Pd al suo interno ha varie anime compresa quella più riformista. I riformisti insieme non hanno fatto massa e forse bisogna che a sua volta all’interno si compattasse e trovasse una leadership unitaria. Se sommiamo i voti di coloro che non sono della maggioranza di governo, vediamo che superano quello della maggioranza di destra. Sono frastagliati e divisi ma forse dopo le europee lo sono un po’ meno»

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