Premierato e autonomia, il “patto” disastroso tra Fdi e Lega

di Carlo Pecoraro

Sulle riforme targate Meloni, il primo dato di una evidente frattura del Paese ce lo consegnano le elezioni europee. Il Sud respinge il progetto di autonomia differenziata della Lega e nell’urna arriva la risposta con la circoscrizione meridionale che premia il centrosinistra. A trascinare il fronte anti-autonomia è la Campania del presidente Vincenzo De Luca. Il governatore è stato tra i primi a muoversi contro il progetto di Calderoli “marciando” su Roma alla testa di un corteo di sindaci e amministratori del Sud. Una protesta che sta costando cara al territorio del presidente, che attende ancora i soldi del Fondo di coesione e sviluppo malgrado le sentenze a lui favorevoli del Tar e del Consiglio di Stato che obbligano il Governo a erogare quei fondi entro la fine di giugno. Vedremo. Che la riforma secessionista avrebbe influenzato l’esito delle elezioni, lo si era già capito alla vigilia. Matteo Salvini aveva rimandato la discussione a dopo il voto, costringendo Fratelli d’Italia a fare lo stesso sul fronte del premierato. Quello tra autonomia differenziata e premierato è una partita di giro. La Lega è pronta a votare la riforma di Meloni, sempre che Fratelli d’Italia offra la sua “mano santa” benedicendo il progetto di autonomia differenziata. Negli ultimi mesi, infatti, più di un segnale era arrivato in questo senso alle segreterie dei partiti di destra. Tanto per citarne uno, a novembre scorso, il ministro meloniano per i Rapporti con il parlamento Luca Ciriani disse: “Capisco la fretta di Calderoli, ma immaginare che ciò che non si è fatto in cinque anni si possa fare in cinque settimane mi pare troppo”. Aggiungendo: “In ballo non ci sono solo le richieste delle regioni di avere maggiori competenze, ma anche una riforma istituzionale dello Stato con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e maggiori poteri alla capitale. Riforme che devono camminare insieme per assicurare uno stato più moderno”. Dal canto suo, Giorgia Meloni ha subito mandato un segnale chiarissimo (agli alleati e alle opposizioni): “Io arrivo alla fine dei cinque anni”. Che tradotto significa: non mi fa paura l’idea del referendum e non lo considererò mai un referendum su di me ma sul futuro del Paese. Amen. Ma ritorniamo alla riforma Calderoli. Per dirla con De Luca e Emiliano, è una “secessione dei ricchi” che rischierebbe di favorire le regioni che già stanno meglio e sfavorire quelle che stanno peggio. Questo gli elettori al sud lo hanno capito benissimo, come hanno capito bene che Palazzo Chigi, del Sud, se ne frega. E i segnali sono stati diversi. Dagli incentivi fiscali tolti alle imprese del mezzogiorno dalla sera alla mattina, con il rischio di far saltare migliaia di posti di lavoro; al disastro delle Zes, le otto zone economiche speciali, attraverso le quali i governatori del mezzogiorno stavano dando risposte immediate alle imprese che volevano investire. E invece si è pensato bene di introdurre una Zes unica e per giunta, controllata da Roma. Per non parlare di quelle risorse sottratte a Calabria e Sicilia, investite nel progetto del ponte sullo stretto – altra ossessione del ministro Salvini – che probabilmente non si farà mai. Insomma, sono state anche queste le ragioni per cui al Sud il centrodestra è andato sotto. Certo per un soffio. Ma sono proprio i soffi a diventare vento. E come cantava Bob Dylan: the answer is blowin’ in the wind.

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