Intervista a Michela Marzano:«Per scardinare la cultura dello stupro non basta punire, si deve prevenire»

di Giada Fazzalari

Michela Marzano è professore ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes. Scrittrice, saggista, editorialista di Repubblica e La Stampa, è stata Deputato della Repubblica, eletta nel 2013 nel collegio Lombardia 1. Ha scritto numerosi saggi e romanzi sia in francese sia in italiano, tradotti poi in molte lingue. Il suo libro “L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore” edito da UTET, ha vinto il Premio Bancarella 2014. Per Rizzoli ha pubblicato quest’anno “Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa”, libro nel quale, attraverso la protagonista, racconta con coraggio delle molestie che ha subito ad undici anni.

Professoressa Marzano, lei ha detto che c’è un continuum tra catcalling e femminicidio, passando per molestie e stupri…

«Questo continuum è la grammatica della cultura dello stupro, un insieme di stereotipi che portano molti ragazzi, giovani uomini e uomini, ad immaginare che l’essenza della mascolinità e della virilità sia quella di abusare, sottomettere, possedere una donna e di mostrare che loro hanno il dominio della situazione su tutto. E che porta, dall’altra parte, a pensare che l’essenza della femminilità sia quella di cedere, sottomettersi e accettare. Questa cultura, che si è incrostata nel corso dei secoli, va decostruita e scardinata se noi vogliamo arrivare veramente a interrompere quel circolo vizioso che può portare progressivamente fino al femminicidio, iniziando dagli insulti, diventando poi molestie, svalorizzazione, perché c’è sempre l’idea che di fatto la donna sottomessa debba poter accettare qualunque cosa».

Ma come si riscrive la grammatica delle relazioni?

«Quanto ho scritto “Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa”, l’idea era proprio quella di dare agli insegnanti e ai genitori uno strumento su cui appoggiarsi per riscrivere la grammatica delle relazioni affettive. È tutto un libro incentrato sul tema del consenso, per cercare di raccontare cosa vuol dire ‘consentire’ e come cedere o tacere non sia consentire. E di come, inoltre, ci sia bisogno per le ragazze di accedere alla consapevolezza del proprio valore e che i ragazzi imparino a guardare e ad ascoltare e a prendere sul serio la presenza altrui, proprio perché il consenso nelle relazioni affettive non è mai qualcosa di monolitico o definitivo, è un processo che si sviluppa con l’ascolto e il rispetto, con il linguaggio verbale e non verbale».

Si sostiene che serve una rivoluzione culturale per smontare gli stereotipi di genere, ma da dove si comincia?

«Assolutamente dall’educazione. La convenzione di Istanbul che il nostro Paese ha ratificato nel 2013 dice chiaramente che se noi vogliamo debellare le violenze di genere nei confronti delle donne, dobbiamo mettere in atto una strategia che si fonda su tre “p” – punire, proteggere, prevenire – e di queste la “p” più importante è la prevenzione; per questo credo sia necessaria una rivoluzione culturale. Dobbiamo pian piano insegnare ai più piccoli e le più piccole la grammatica e l’ABC delle relazioni affettive, il che vuol dire il rispetto dell’altro in quanto persona e non immaginare che si possa trattare una persona come un oggetto».

L’impressione però è che il Governo di quelle tre “p” abbia voluto prendere piuttosto quella della punizione. Si aumentare le pene ma non si investe sulla prevenzione. Lei cosa ne pensa?

«Penso che chi oggi è al Governo non abbia un’idea di cosa significhi combattere le violenze, perché agiscono in maniera violenta e sono i primi ad abusare del proprio potere. L’armamentario, da un punto di vista giuridico, delle norme per punire i colpevoli esistono già, non si tratta di incrementare l’odio e aumentare la violenza, perché poi il problema è che quello può scatenare una forma di vendetta e tornare indietro. Il tema vero è quello di riuscire a prevenire la violenza, ma sulla prevenzione questo Governo non fa nulla. Anche il ministro dell’Istruzione, che dice di voler combattere il bullismo, lo fa con atteggiamento da bulli e siccome quello che conta per educare non sono solo le parole ma anche gli esempi, noi abbiamo dei pessimi esempi in questo momento che confortano purtroppo tutti gli stereotipi presenti nella cultura dello stupro».

Che significato ha questo incredibile moto d’opinione che dalla tragica scomparsa di Giulia sta montando verso le manifestazioni del 25 novembre in tutta Italia?

«È un momento di grande consapevolezza, in particolar modo da parte delle giovani donne, del fatto che è arrivato davvero il momento di agire e di reagire. La mia paura è che nel momento in cui passa la bufera, immediatamente si ritorni alle vecchie abitudini. Sarebbe bello che per una volta non ci si limitasse agli slogan, agli hashtag, ai minuti di silenzio, ai minuti di rumore, ma che sia agisse davvero per cambiare la cultura patriarcale del nostro Paese».

 

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