Intervista a De Rita: «Gli italiani sono sonnambuli e individualisti. La classe dirigente inerte è malata di presentismo»

Intervista di Giada Fazzalari

“Un Paese che trascina i piedi”, che invecchia, immalinconito, individualista e che non fa figli. Dove i giovani, con poche certezze, scappano. Un paese dove i cittadini sono “sonnambuli”, che non reagiscono di fronte alle fragilità che derivano da nodi, come quello demografico, ambientale, economico, di cui la classe dirigente, tutta – dalla politica, agli imprenditori, ai sindacati, ai corpi intermedi – semplicemente non si occupa. Così, si crea una sorta di modello sociale nuovo in cui crescono l’individualismo e la solitudine. E’ la fotografia dell’ultimo Rapporto Censis, che da 57 anni racconta come evolve la situazione sociale del paese. Un ‘ritratto’ che in questa intervista all’Avanti! della domenica, il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, analizza con lucidità.

Nell’ultimo rapporto Censis presentato pochi giorni fa avete descritto un paese di sonnambuli, inerti, impauriti. Un quadro che possiamo definire pessimistico? che Paese siamo diventati?

«Abbiamo usato l’immagine del sonnambulismo per esprimere un’idea forte sulla società italiana, cioè quella dell’incapacità di metter mano ai problemi reali che abbiamo davanti. Di vederli, toccarli ma senza poi agire di conseguenza, un po’ come i sonnambuli che a tentoni si muovono, sono semi vigili, capiscono ma non reagiscono. E questo evidentemente è il segnale di un malessere più profondo»

Quali sono poi i problemi, i nodi che il nostro Paese vede ma non prova a risolvere?

«Innanzitutto il tema demografico, di cui si parla da anni, ma che poi non vede nessun tipo di reazione. Negli ultimi cinque anni, un ciclo di scuola elementare, abbiamo visto ridursi il numero di iscritti di 225 mila bambini. Dobbiamo considerare questo dato un segnale d’allarme. Il secondo nodo è strutturale e riguarda la proiezione economica, cioè l’incapacità di crescere. In Italia sono tutti oramai convinti che se non cresciamo siamo condannati a un declino inesorabile: c’è stata l’inflazione, i salari si sono fermati, gli investimenti e i profitti delle imprese devono tornare a crescere. Questo è chiaro a tutti però poi nessuno ci mette mano. Terzo tema è quello della crisi ambientale e della fragilità del nostro territorio. Ne siamo tutti consapevoli, non soltanto la classe dirigente del Paese, ma ogni italiano medio sa che da qui a qualche anno le conseguenze di questa fragilità ricadranno sui conti di ogni famiglia e ne sono la dimostrazione le recenti alluvioni in Emilia-Romagna e in Toscana. Se però la consapevolezza ormai è chiara, non è altrettanto chiaro cosa fare, e nessuno si agita per risolvere questo altro grande tema. Un ulteriore elemento di fragilità è il debito pubblico, che è esploso negli ultimi anni, che ha tutelato i risparmi e i redditi. Il progetto del ‘93 era quello di ridurre il debito complessivo rispetto al reddito e invece lo lasciamo correre al doppio della velocità del reddito, tanto che raggiungeremo i tremila miliardi l’anno prossimo. Il sonnambulismo che noi descriviamo non è un segnale di pessimismo cosmico, in cui va tutto male. Ma è un segnale di preoccupazione, perché la base sociale del Paese, quella parte sommersa sotto un iceberg, in qualche modo si sta indebolendo, mentre la parte emersa va bene. Il nostro è un Paese dalle mille meraviglie: se lo guardiamo dall’alto, nella parte emersa dell’iceberg, è un paese bello, ricco, di creatività, di imprese, di innovazione, di manifattura. Ma è anche fragile soprattutto nella sua parte sommersa. E’ questo il senso della nostra preoccupazione»

Nel rapporto avete descritto, tra le altre cose, una società che non guarda ai giovani, non li rappresenta e quasi li respinge, tanto che sei su dieci dichiara di voler andare via dall’Italia.

«Abbiamo descritto le ansie di tutti, in particolare quelle dei più giovani. Quando diciamo di temere il declino, significa che non vediamo quella spinta in avanti a uscire dalla crisi che il nostro Paese ha avuto in passato. “Uno sciame che si è disperso”: cioè il modello di sviluppo italiano che era quello in cui tutto sommato le spinte sociali finivano per entrare dentro un unico flusso e andavano in un’unica direzione, si è disperso e non c’è più un processo sociale che spinge tutti a tirare l’Italia fuori dalla crisi. I giovani sono la parte migliore, certo, ma devono affrontare anche i problemi che gli lasciamo in eredità e rispetto al passato, non sono strutturati per farlo. I giovani vanno via anche perché, fuori dall’Italia, le condizioni di crescita economica e sociale sono migliori. Girano il mondo, imparano, vivono in una dimensione molto più aperta rispetto a quella che è stata nelle generazioni precedenti. Di per se questo non è un dato negativo. Il problema è che poi i ragazzi non ritornano e siamo immalinconiti nell’invecchiamento. Qualcuno lo ha descritto come “un Paese che trascina i piedi”»

Quando parlate di “de-responsalizzazione collettiva”, può essere anche intesa come una sorta di mancanza di presa di coscienza e quindi di responsabilità da parte dei cittadini che magari per uscire dall’inerzia dovrebbero prendere parte più attiva alla vita pubblica del Paese anziché rassegnarsi?

«Sì questo è linea di principio è giusto: la responsabilizzazione porta in se un impegno concreto, quotidiano, per richiamare la classe dirigente a metter mano ai problemi. In realtà questo secondo noi è sintomo di un atteggiamento, sul piano sociale ma anche sul piano antropologico, che è più profondo e cioè il fatto che vivano tutti, giovani e vecchi, in un clima di progressivo isolamento. E’ un Paese dalle tante scintille e la responsabilità non è più una responsabilità collettiva, che finisce in uno spasmo emotivo, in un momento in cui tutti parlano di un fatto per giorni e poi smettono. Ma è una responsabilità che riporta alla propria dimensione»

Un modello sociale nuovo?

«Sì. Un modello di sviluppo nuovo, in cui quello che conta è la capacità di personalizzazione dei diritti, dei servizi, dei modelli professionali. Questa iper personalizzazione diventa una selezione profonda, in un sistema economico, su almeno due fronti: il primo è quello del lavoro, oggi molti ragazzi scelgono di non andare a lavorare e cioè fanno selezione d’impresa. Non è mai successo, fino ad ora si facevano scegliere, costruivano dei curriculum strepitosi sperando di ottenere la migliore offerta. Oggi scelgono in base a un sistema di interessi molto frammentato, diversificato. Ognuno ha un modello personale di vita e non è un caso che tante imprese siano in difficoltà, non perché mancano i lavoratori ma perché non riescono a proporre un modello nel quale, soprattutto i giovani, si riconoscano. Il secondo processo di selezione molto forte, silenzioso ma anche molto potente è quello dei risparmi: abbiamo accumulato più di cinque mila miliardi e le famiglie passano da una gestione di risparmio tutta orientata ad una propria rassicurazione»

Mi chiedo se questa sorta di assopimento dei cittadini non possa in un certo senso far comodo o crei una sorta di comfort zone in una certa politica, che preferisce soffiare più sulle paure anziché creare prospettive di futuro. Lei cosa ne pensa?

«Sì penso di sì, anche se però credo non sia tanto una furba rassicurazione per creare una comfort zone, ma una lettura della società e dei problemi che si limitano a guardare le foglie sull’albero, che tutto sommato sono belle, senza capire che il problema è che si stanno ammalando le radici. Questa è la preoccupazione, quella cioè di limitare il dibattito, l’osservazione, la discussione a cose che si esauriscono velocemente»

Quindi in sostanza la narrazione che la classe politica dirigente fa delle cose è basata più sulla dichiarazione del momento che non fondata sulle radici del problema?

«Il dibattito pubblico si ferma alla sua superficie: vale per la politica, per i grandi commentatori come i sindacati per le grandi organizzazione. Un dibattito vincolato a spasmi di emozione: ad esempio l’incidente terribile dove sono stati travolti cinque operai da un treno, ha suscitato un’emozione enorme e però non si è tornati a fare una riflessione ampia sulla sicurezza sul lavoro. O il problema dei femminicidi, ha creato grande preoccupazione ma non si mette mano al problema davvero».

Quindi possiamo dire che la politica sia un po’ “malata” di presentismo?

«La politica è malata di presentismo da trent’anni. E la politica rispecchia la società e fa quello che fa l’uomo della strada: vede le cose di oggi, ne discute e domani passa ad altro. Il dibattito sulla guerra in Medio Oriente doveva avere un grado di profondità straordinaria e alla fine si limita alla cronaca. Il PNRR, che doveva essere il grande piano di trasformazione di questo Paese, si limita al conteggio della prima, seconda o terza rata e nessuno sa se sta andando molto bene o molto male. Sul salario minimo, si dice che debba essere portato a nove euro. Ma mi aspetto un dibattito più profondo e nelle sedi opportune. Questa superficialità è una responsabilità non solo politica ma della classe dirigente del Paese più in generale: dagli imprenditori, ai sindacati, ai corpi intermedi, ai giornalisti, a noi che facciamo ricerca»

Che cosa si aspetta o cosa dovrebbe fare la classe dirigente del Paese dopo la fotografia scattata dal Censis?

«Dovrebbe fare un bagno di realtà e non limitarsi alla superficie delle cose. E mi aspetto che in ogni campo ciascuno si prenda le proprie responsabilità, con maggiore attenzione e profondità. Siamo in una società in cui la cifra è l’isolamento, la solitudine. Tutto questo soprattutto determinerà una sorta di selezione, di taglio di radici in cui ciascuno guarderà ai propri bisogni e non a quelli della collettività, creando una personalizzazione forte del modello di vita, sempre basata sull’individualismo»

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