Il futuro dell’ambiente nelle mani dei petrolieri

di Stefano Amoroso

Chissà se l’emiro Al Nahyan, Presidente degli Emirati Arabi Uniti, o Sultan Al Jaber, potente amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale ADNOC, nonché fondatore della compagnia di Stato sulle energie rinnovabili Masdar, hanno letto il regolamento delle Cop, le riunioni annuali che si tengono in varie parti del mondo, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per discutere di ambiente e del futuro del clima.

Certamente, se lo hanno fatto, avranno appreso che il ruolo del Presidente della Cop deve essere imparziale e non farsi influenzare da interessi nazionali o di parte. Alla luce di quanto visto finora, invece, il signor Al Jaber, padrone di casa e presidente della Cop 28, ha ceduto il passo al suo omonimo presidente della compagnia petrolifera nazionale: a Dubai, metropoli costruita sui profitti del petrolio, pare siano in corso trattative con diversi Stati per siglare accordi per l’estrazione di oro nero. Secondo la BBC ed il Center for Climate Reporting, che hanno potuto visionare dei documenti riservati all’apertura della Conferenza delle parti (da cui l’acronimo Cop), lo scorso 30 novembre, ci sarebbe addirittura una lista di 13 Stati, tra cui la Germania e l’India, venute nel Golfo per trattare barili di petrolio mentre si discute di riduzione delle emissioni nocive e di mitigazione degli effetti climatici.

Per capire come siamo potuti arrivare a questo punto, bisogna tornare indietro di alcuni anni. Nel 2015, a Parigi, la ventunesima edizione della Cop si concluse con un accordo storico: i 195 Paesi rappresentati (quasi quanti sono i membri dell’ONU) s’impegnarono a mantenere l’aumento delle temperature al di sotto dei due gradi centigradi globali e, se possibile, sotto 1,5 gradi. Per capire quanto fosse storica quella svolta, bisogna ricordare che, fino ad allora, valevano gli accordi di Kyoto: riduzione delle emissioni senza nessun tetto massimo di aumento del clima, ed accordo valido solo per i Paesi industrializzati.

Da Parigi in poi, naturalmente, la partita è cambiata totalmente ed è diventata globale: impegno ad abbandonare il carbone entro il 2030, compensazioni per i Paesi più poveri e più colpiti dai cambiamenti climatici, regolamenti stringenti e misure a favore delle energie rinnovabili. Grazie a questi impegni, ci dicono gli scienziati, l’aumento delle temperature, entro il 2100, invece dei 4 gradi a cui eravamo allegramente avviati prima del 2015, dovrebbe arrivare ad un massimo di poco superiore ai 2 gradi. Questo ci metterebbe al riparo dai disastri più grandi, ma non ci permetterà di salvare la gran parte dei ghiacciai, condannerà alla scomparsa diversi Stati insulari e, purtroppo per noi, ci esporrà a tante piccole e grandi calamità naturali che, soprattutto in aree fragili come il Mediterraneo, colpiranno duramente.

Il fatto che in questo contesto, sfruttando artifici retorici e cavilli giuridici, petrolieri come Al Jaber si mettano a fare affari come se nulla fosse, stride fortemente con lo spirito delle Cop. Certamente, per il poliedrico uomo d’affari, è un’occasione da non perdere. D’altronde, se è pacifico che la fonte energetica più inquinante è il carbone, che va abbandonato, perfino il petrolio o il gas naturale rappresentano un passo avanti nella transizione energetica. Peccato per noi, però, che gli accordi in ambito energetico abbiano una durata almeno ventennale. Significa, dunque, allungare in maniera indefinita la transizione, nella speranza che, tra le varie previsioni dei climatologi, prevalgano quelle più ottimistiche. E se, invece, l’aumento delle temperature e gli sconvolgimenti climatici dovessero sfuggirci di mano?

A fiutare l’aria, ricca di idrocarburi, sono stati, tra i primi, gli uomini dell’Eni. Così, mentre con la controllata Snam propongono da anni di produrre idrogeno verde nel deserto algerino e tunisino, per poi immetterlo nei gasdotti che uniscono questi Paesi all’Italia, e portare così energia a basso costo, e pulita, nel cuore dell’Europa, dall’altro lato diventano principali partner del Qatar per esportare gas liquido in Europa, e fanno accordi con gli emiratini e gli altri signori del petrolio. Sarà questa, la transizione ecologica, ma non ideologica, di cui ha parlato la Presidente Meloni in apertura della Cop 28?

Mentre gli psicolinguisti di tutto il globo terracqueo sono al lavoro per decrittare le parole oscure della Meloni, a Dubai è in gioco il futuro del mondo. E a dare le carte è un petroliere.

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