di Stefano Amoroso
Nelle ovattate stanze del Fondo Monetario a Washington normalmente si guarda con un certo distacco e malcelato senso di superiorità alle vicende politiche nazionali, definite sprezzantemente “locali”, nella convinzione che, alla fin fine, chiunque vinca debba poi venire a patti con le grandi istituzioni finanziarie internazionali, a cominciare dal potentissimo FMI. Eppure, in occasione delle elezioni presidenziali argentine del 2023, pare che si tifasse apertamente per Sergio Massa, leader peronista della coalizione di centrosinistra “Union por la patria”: in fondo, per i tecnici di Washington, rappresentava un volto noto, un usato sicuro, il leader di una coalizione affidabile. Invece la vittoria di Javier Milei, leader della coalizione “La libertad avanza”, d’ispirazione libertaria conservatrice e populista di destra, ha lasciato i più sorpresi, e qualcuno sinceramente preoccupato. La paura, sia tra i Paesi confinanti con l’Argentina, che tra le cancellerie di mezzo mondo, è che il nuovo inquilino della Casa Rosada faccia fare un salto nel buio all’Argentina. Il fatto che molti ignorano, tuttavia, è che per molti argentini quel salto è già stato compiuto, e fallito, diversi anni fa. Da quando, nel 2001, il Governo argentino dichiarò il default e l’anno successivo abbandonò il “regime di convertibilità” col dollaro, con lo scopo di lasciar libero di fluttuare il peso argentino rinunciando alla parità di valore con il dollaro statunitense, il Paese non si è mai più ripreso veramente. A partire dal 2019, poi, il Paese si è avvitato in una pericolosa spirale recessiva, tra iperinflazione, calo dei consumi (l’industria automobilistica argentina lavora solo al 15% del suo potenziale e nell’ultimo anno la vendita di nuove autovetture è calata del 54%, un vero tracollo), esplosione del debito pubblico e crescita enorme della povertà. Di fronte a questa situazione disperata, l’economista Javier Milei, di lontane origini umbre e calabresi, ha fatto delle proposte shock, quali la completa dollarizzazione dell’economia (per cercare di tamponare l’altissima inflazione), un drastico taglio alla spesa pubblica e la liberalizzazione di interi settori economici. Si tratta di un vasto ed ambizioso programma di riforme, che richiederà sicuramente molti anni per arrivare a conclusione, per ridar fiato e slancio ad una delle economie più boccheggianti tra quelle del G20. Diventato immediatamente un punto di riferimento per tutta la destra alternativa mondiale (al giuramento di Milei erano presenti, tra gli altri, Abascal della spagnola Vox, Orban, Bolsonaro, ed altri), in realtà il programma di Milei rappresenta il tentativo più estremo di applicare i principi della scuola economica di Chicago, di Milton Friedman ed Arnold Harberger. Sono gli stessi principi alla base delle ricette economiche applicate negli anni ottanta, inizialmente con un certo successo, da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher nel Regno Unito. Ma siamo sicuri che è quello che vogliono i protezionisti ed illiberali della destra alternativa, da Orban a Bolsonaro, da Salvini ad Abascal di Vox? Ignorata, giustamente, la sirena dei Brics (l’Argentina non è un Paese in via di sviluppo, ma un Paese sviluppato in preda ad una turbolenza monetaria), Milei si è rivolto subito agli Stati Uniti ed all’Unione Europea. Ben sapendo che solo agganciandosi all’Occidente ed ai mercati internazionali avrà delle concrete possibilità di successo. La speranza è che i tagli alla spesa pubblica colpiscano quella più inutile, corrotta e dannosa e non l’assistenza ad un popolo che rischia seriamente di essere ridotto alla fame. Andrà seguito con grande attenzione l’esperimento dell’economista Milei: è certamente molto lontano dai principi della socialdemocrazia e del progressismo, per come li intendiamo in Europa, ma se consideriamo che sono bastati tassi d’inflazione tra il 7 ed il 10 per cento, per un paio d’anni, per mettere in difficoltà molti europei, come ci sentiremmo se dovessimo confrontarci con tassi d’inflazione superiori per molti anni al 90%, con un picco del 142,7% registrato nello scorso mese di ottobre? L’inflazione non è la più subdola delle tasse, che colpisce soprattutto i salariati più poveri, i pensionati ed i dipendenti pubblici? Indicarla come primo nemico da battere non pare un’eresia, ma una necessità. Pare esistere una grande distanza tra Milei, entusiasta fautore della globalizzazione e delle liberalizzazioni, condottiero anticasta e contrario ai privilegi, e gente come Salvini che, invece, fa proprio della difesa di tanti interessi locali e di piccoli e grandi privilegi, contro la globalizzazione “cattiva”, la sua principale ragion d’essere politica e morale. A ciascuno il suo.