di Giada Fazzalari
L’Italia fotografata dal Censis nel suo ultimo rapporto annuale, è quella di un Paese che galleggia. Con la sindrome della “continuità nella medietà”, in cui restiamo intrappolati. Come in una sorta di eterno presentismo. Sostanzialmente, gli italiani non hanno slanci, né crolli. Sono lontani da impennate o particolari crisi. Una condizione di ‘stazionamento’ terribile. Cosa c’è di peggio che una società che non fa nulla, non si oppone alle ingiustizie sociali, non protesta per le diseguaglianze che albergano ormai ovunque, che non si batte per raddrizzare i torti perpetrati verso egli ultimi della fila? Attenzione, perché a ben guardare, nella radiografia consegnata dal Censis, non siamo solo di fronte all’immobilismo e alla paura. Accanto a un ceto medio sfibrato, a un astensionismo nelle urne arrivato a livelli record, a un’occupazione che, sì cresce, come dice Meloni, ma che è svilita dalla precarizzazione, cosa che, naturalmente, Meloni non dice, c’è di più: c’è un Mondo Nuovo. Accanto al disincanto, all’impotenza, alla frustrazione, all’assenza di quella “rabbia” buona, se mai esistesse una rabbia costruttiva, c’è una crescente avversione dei valori un tempo irrinunciabili come quelli della democrazia, del convinto europeismo e dell’atlantismo. Fermenta l’antioccidentalismo, si incrina la fede nelle democrazie liberali, si infiamma la guerra religiosa, etnica e culturale. Persino delle identità sessuali. Una condizione del genere, passiva e avvilente, fa venire in mente un principio che Intini, indimenticato direttore di questo giornale, richiamava spesso, il principio della rana bollita di Noam Chomsky: se gettate in un pentolone bollente una rana, questa balzerà subito fuori, salvandosi dalla morte. Se invece la immergete in una pentola d’acqua fredda, con il fuoco acceso, l’acqua si riscalderà piano piano. Prima tiepida, poi calda. La rana si stancherà un po’ ma non si spaventerà. Intanto si indebolirà, non avrà la forza di reagire, sopporterà ma non farà nulla. Fin quando non morirà. È esattamente questa la condizione che viviamo ora: si assume come un dato di fatto il degrado, le vessazioni e la scomparsa dei valori e dell’etica, accettando la deriva e alimentandola con la loro inazione. E con essi, la fragilità sociale che deriva dai mancati provvedimenti di un governo che, per citare Nenni, è “forte con i deboli e debole con i forti”. Prendiamo la sanità: non ci sono i medici, gli ospedali sono fatiscenti, le liste di attesa aumentano, alcuni reparti vengono soppressi, medicina territoriale in crisi. Una condizione che ci sta abituando al lento declino della sanità pubblica, nell’indifferenza generale, ci stiamo adattando alla perdita dei principi universalistici che l’hanno ispirata. Così come le diseguaglianze che crescono: accettiamo passivamente che l’1% della popolazione mondiale detenga quasi la metà della ricchezza mondiale. E allora, forse, è necessario prendere coscienza di questo mondo nuovo e reagire, come anche, in queste pagine, afferma Giuseppe De Rita. Di una politica di sinistra, del merito e del bisogno, della libertà e della giustizia sociale. In una parola, di una sinistra socialista.