di Lorenzo Cinquepalmi
La piaga dell’affollamento delle carceri ha bisogno di un intervento di sistema, non di un cerotto giuridico che alleggerisca la situazione lasciando immutate le ragioni che l’hanno causata. In tutta Europa il numero dei delitti commessi è costantemente in calo (in Italia cala anche più della media) ma il numero dei detenuti cresce, e i problemi di sovraffollamento carcerario sono comuni a molti dei maggiori paesi europei. Occorre, allora, introdurre delle modifiche strutturali al sistema di esecuzione delle pene, prevedendo che un numero largamente maggiore di condannati sconti la pena in regime di privazione della libertà ma fuori dal carcere. Le caratteristiche fondamentali della pena sono: l’afflittività, la rieducazione e la segregazione del condannato a tutela della comunità. L’afflizione ha un significato insieme compensativo e rieducativo: se da un lato la morale dominante richiede che il dolore provocato trovi una compensazione nel dolore che il colpevole patisce, dall’altro, esclusa la deterrenza dall’essere provato che il timore della condanna non inibisce la spinta a delinquere, si ritiene che il ripensamento innescato da un certo grado di sofferenza generi un moto di revisione critica nei condannati. Revisione tuttavia sterile se non accompagnata da una adeguata azione di reinserimento sociale, impossibile in un sistema penitenziario come il nostro in cui le strutture sono insufficienti per capienza, inadeguate per vetustà e fatiscenza, inefficaci per la cronica mancanza di personale, sia impiegato nella custodia che destinato alla rieducazione. Del resto, è dato consolidato che rieducazione e reinserimento dei detenuti senza il loro avviamento al lavoro sono assai difficili da conseguire, ma il lavoro, nelle condizioni attuali, resta una chimera. Quanto, infine, al terzo elemento dell’esecuzione, la tutela della collettività attraverso la segregazione delle persone pericolose, esso è oggi troppo condizionato dal timore di conseguenze delle eccezioni invece che dalla generale aspettativa dei benefici, con la conseguenza che, oltre alla pratica sanitaria della medicina difensiva, la società mediatica in cui viviamo ha prodotto quella della carcerazione reattiva: ogni volta che, a fronte di migliaia di ammessi a misure alternative al carcere, ce n’è uno che commette un reato (fatto statisticamente inevitabile), la reazione mediatica induce gli operatori giudiziari a stringere drasticamente le maglie dell’accesso ai percorsi di rieducazione. Per affrontare questa specie di tempesta perfetta occorre partire da un dato di realtà: nelle condizioni attuali delle galere italiane (il termine non è scelto a caso), la sproporzione tra la quantità di dolore inflitto ai condannati e il disvalore delle loro azioni, tra l’afflizione e la rieducazione, tra il soffocamento della speranza e la tutela della società, cancella qualsiasi prospettiva di recupero sociale. Chi sconta la pena in carcere ha il destino segnato dalla recidiva: non ha potuto né comprendere il suo errore né imparare un’alternativa. Tuttavia, la privazione della libertà non è solo il carcere; altre forme di restrizione della libertà sono idonee a soddisfare sia l’esigenza di compensazione del male commesso che l’aspirazione rieducativa, in forme diverse dalla carcerazione. E anche la segregazione in chiave di protezione della società va ragionevolmente riservata a casi in cui la pericolosità per l’integrità fisica dei cittadini sia oggettiva. Sulla base di questa analisi, un ampliamento dell’uso della detenzione domiciliare, anche come pena da infliggere direttamente in condanna oltre che come modalità di esecuzione di condanne genericamente detentive, si presenta come una soluzione sistematica promettente. Ha un contenuto afflittivo innegabile, ma non esasperato come quello attualmente imposto nelle nostre prigioni; consente una gestione più agevole dei percorsi rieducativi, a cominciare dal lavoro; alleggerisce significativamente il sovraffollamento senza regalare sconti di pena malvisti dall’opinione pubblica. Quanto, poi, alla minore custodia di persone potenzialmente pericolose, l’effetto va bilanciato con l’individuazione di categorie di condannati ontologicamente connotati da un minor pericolo, perché non coinvolti in delitti in cui sia lesa l’incolumità della persona. Partendo da queste riflessioni, il PSI ha elaborato uno schema di provvedimento legislativo, da atteggiare, in base alla situazione parlamentare, come progetto di legge o come proposta di emendamento a una delle annunciate iniziative governative in materia, che preveda la condanna alla detenzione domiciliare per gli imputati ritenuti colpevoli di reati non violenti entro una certa soglia di pena, e la conversione domiciliare per coloro che sono già condannati e si trovino nelle stesse condizioni. La detenzione domiciliare deve diventare una specie di pena autonoma e non, come oggi, una particolare modalità di esecuzione della reclusione. Quindi il carcere non dovrà più poter essere inflitto per i reati non violenti, salvo che l’entità della condanna non superi una soglia significativa, tale da implicare un’altrettanto significativa pericolosità sociale. La detenzione domiciliare dovrà anche essere sempre accompagnata dal lavoro, con l’obbligo, per chi non riesca a reperirlo, di svolgere lavori di pubblica utilità presso uno dei comuni prossimi al luogo di detenzione. Mentre all’eventuale indisponibilità di un domicilio si dovrà rimediare offrendo alle strutture del terzo settore disponibili all’accoglienza un contributo corrispondente al costo diretto che la reclusione in carcere comporta per l’amministrazione penitenziaria. In questo mese di settembre il tema carceri tornerà, in un modo o nell’altro, in Parlamento: i socialisti offrono questo loro contributo e sono certi che troveranno gambe su cui farlo camminare e spiriti per portarlo avanti.