I disastri dell’Autonomia differenziata per l’istruzione

di Luca Fantò

Chissà se, come richiamava il Ministro Calderoli parlando di regionalizzazione dell’istruzione pubblica, “un granello di sale” sarà sufficiente ad evitare la disgregazione culturale del Paese e del divario sociale all’interno delle Regioni stesse. È arrivato in questi giorni alla Camera il ddl Calderoli, approvato precedentemente dal Senato. Se a ridosso delle elezioni europee la legge venisse definitivamente approvata, ogni Regione potrebbe chiedere di gestire in autonomia fino a ventitré materie, tra queste l’istruzione. Si creerebbero le condizioni per avere venti sistemi di istruzione diversi. Questo inciderebbe fortemente sulla vita e il futuro dei nostri giovani. Si permetterebbe alle maggioranze che governano le singole regioni di agire sui contratti e sul reclutamento del personale, sulla libertà di insegnamento, sulla mobilità e sui trasferimenti, sull’offerta formativa, sulla formazione e la valutazione dei docenti e del personale, sulla disciplina e sul finanziamento delle scuole, anche di quelle paritarie e private. L’immagine del sistema di istruzione pubblico che avremmo, al compimento definitivo del processo di autonomia, è di un’estrema varietà, non solo tra regioni ma anche all’interno delle stesse. Differenziare i contratti del personale scolastico significa differenziare i salari, aprire una sorta di campagna acquisti tra regioni e rendere non uniforme lo status giuridico dei docenti. Il contratto nazionale non sarà più esclusivo e si creeranno, all’interno della stessa Regione, due tipologie di organico, quello statale e quello regionale. L’autonomia permetterà di aprire le scuole alla chiamata diretta concedendo massima discrezionalità nella scelta dei requisiti del personale e della mobilità. Anche la formazione e la valutazione dei docenti risentirebbero degli indirizzi politici e delle ideologie espresse dalla maggioranza al governo regionale, come la disciplina e il funzionamento quotidiano degli istituti scolastici. Il Friuli Venezia Giulia da tempo fa pressione affinché il Governo trasferisca alla Regione l’USR, i relativi beni mobili e immobili, le risorse finanziarie e la possibilità di stipulare direttamente i contratti con DS e DSGA. Ne risentirebbe anche l’offerta formativa, che potrebbe essere orientata, oltre che dagli indirizzi politici, anche dalle specificità locali. La Regione Veneto, ad esempio, ha sottoscritto con il Ministero dell’Istruzione un protocollo per lo sviluppo delle competenze in materia di storia e cultura veneta. In ultimo, ma assolutamente non ultimo, la regionalizzazione potrebbe determinare diversità nei criteri di parità oltre che a dare il via libera a quei finanziamenti alle scuole private finora pudicamente negati o celati dietro i vari bonus scuola e bonus libri. Anche in questo caso la Regione Friuli Venezia Giulia è d’esempio, avendo già richiesto la parità tra scuole statali e non statali. Sostenere la privatizzazione dell’istruzione, andrebbe a vantaggio di quelle classi abbienti in grado di investire risorse economiche sul futuro dei propri figli e non di quelle famiglie che oggi sono in difficoltà nell’acquisto dei libri di testo. Per non parlare della qualità. Nel 2023 (fonte dossier Tuttoscuola) almeno diecimila neodiplomati hanno acquisito il titolo con modalità non chiare. Il giro d’affari è di decine di milioni di euro. Il danno sociale sicuramente incalcolabile. Se “l’unità del Paese passa attraverso l’unità culturale e della formazione”, appare evidente come la riforma Calderoli (nonostante Calderoli) stia andando in ben altra direzione. Noi socialisti continuiamo la nostra battaglia per una scuola statale efficace e lo facciamo nei modi che da sempre caratterizzano la cultura socialista e democratica: informando i cittadini e, se necessario, chiedendo agli italiani di partecipare ed esprimere il loro parere attraverso un referendum.

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