di Alessandro Silvestri
La riforma della giustizia, veterana araba fenice del sistema di pesi e contrappesi che furono progettati fin dagli albori dello Stato italiano, per regolare il potere pubblico al proprio interno e tra questi e il popolo, al quale appartiene, come recita il primo articolo della Costituzione repubblicana, la sovranità, ovvero il potere. Questo almeno formalmente, in quanto come sappiamo, il potere del popolo italiano è delegato ai tre poteri fondamentali dello Stato, come già Montesquieu aveva teorizzato a proposito di Stato di diritto e successivamente da de Tocqueville a Kelsen, elaborate le basi e i principii della democrazia liberale: Il legislativo che è proprio del Parlamento, l’esecutivo che è esercitato dal Governo, il giudiziario che appartiene alla magistratura. Abbiamo quindi due livelli politici, ed uno tecnico ai vertici dello Stato. A latere di questi, vi è un ulteriore potere, anzi due ma spesso e volentieri si intrecciano, ovvero il potere economico e quello mediatico, che un certo peso specifico hanno nella determinazione e nelle fortune degli altri tre. Senza andare troppo indietro nel tempo, vogliamo ricordare la riforma di Giuliano Vassalli (ministro guardasigilli socialista dei governi Goria, De Mita e Andreotti) del 1988 che nasceva sull’onda del referendum del 1987 sulla “giustizia giusta” un tema che era venuto clamorosamente a galla, per via del caso Tortora. Fu introdotta sostanzialmente la responsabilità civile dei giudici (ampiamente disattesa in seguito) in attuazione dell’art. 28 della Costituzione. Nel 1989 si completava l’opera di Vassalli con l’entrata in vigore del nuovo Codice penale, che sostanzialmente poneva accusa e difesa su di un piano paritetico, e anche sul piano formale il PM scese dal banco a fianco del giudice e prese posto accanto a quello dell’avvocato. I socialisti pagarono soltanto pochi anni dopo anche per queste riforme, sacrosante, necessarie e utili alla modernizzazione del Paese. Ma questa parte di autobiografia della Nazione, non è stata ancora scritta adeguatamente. Altro precedente di notevole intensità è stata la lunga battaglia berlusconiana con la magistratura (e viceversa), che ha finito per non produrre novità sostanziali (a parte quelle penali per Berlusconi e il suo entourage) e ha concorso semmai ad indebolire i poteri dello Stato, tanto che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ritenne di aumentare alcune funzioni di potere e di prerogative del Quirinale. Oggi, con una maggioranza parlamentare ampia e apparentemente solida salvo intoppi, la parte che mancava nel processo di rinnovamento iniziato nel 1987 dai socialisti e i radicali, sull’ammodernamento della giustizia, è giunto al nodo della separazione delle carriere e all’introduzione del sorteggio per gli organi di autocontrollo, a partire dal CSM. Questo provvedimento se vedrà la luce, concorrerà a depotenziare le correnti interne alla magistratura, che per sua stessa natura di terzietà in realtà non avrebbe dovuto averne. Un processo che però non può essere visto o interpretato come la riduzione dei poteri e delle prerogative di un magistrato, anzi è facile che accada esattamente l’opposto. Meno cordate che si riuniscono per determinare questa o quella linea, uguale maggior autonomia del singolo secondo i principii basilari di scienza e coscienza. Per adesso l’ANM e le varie sigle hanno (legittimamente) paventato lo sciopero della magistratura anche se poi nel documento finale non l’hanno chiamato esattamente così, ma “astensione dall’attività giudiziaria” rigettando le accuse, non del tutto infondate, di corporativismo e non solo dai banchi della maggioranza. Visto che a partire dalla questione dell’abuso d’ufficio, anche molti esponenti delle opposizioni si sono risvegliati dal torpore del sostegno critico “senza se e senza ma” alle toghe. E soprattutto ad alcune rispetto ad alcune altre. Una cosa senza alcun senso in ogni democrazia che si rispetti. Ma anche questi sono i frutti avvelenati ereditati da Tangentopoli, che ancora tengono banco. Sul fronte opposto, quello dei “riformatori” della maggioranza si continua invece col solito balletto a corrente alternata, erede dell’inveterato giustizialismo di destra che però funziona soltanto quando il tintinnio di manette riguarda gli altri. Insomma l’ennesima riproposizione del fate quel che dico io ma non fate quel che faccio io. Non ci resta che sperare che stavolta la gatta frettolosa non li faccia tutti ciechi, i gattini.