di Stefano Amoroso
La Legge Finanziaria 2025, che deve arrivare in Parlamento entro il 20 ottobre, è ancora avvolta nella nebbia più fitta a pochi giorni dalla sua presentazione ufficiale, e questo è un pessimo segnale della salute della democrazia di questo Paese. In altri tempi e con altri governi, infatti, in questi giorni non si parlerebbe d’altro ed impazzerebbe il confronto politico sulla legge economica e finanziaria più importante dell’anno per lo Stato, quella che influenzerà tutte le decisioni future del Governo e della maggioranza in questo ambito. Ancora più grave, però, è l’incertezza sui suoi contenuti: a quanto ammonterà? I 15 miliardi previsti nello (scarno) Documento di Economia e Finanza (DEF) presentato dal Ministro dell’Economia lo scorso aprile alle Camere? O la cifra sarà diversa? E, soprattutto: dove si andranno a prendere le risorse necessarie? In queste ultime settimane si è sentito un po’ di tutto: rimodulazione dell’Irpef, con aumento delle imposte per i più ricchi, aumento della tassazione sugli utili, tagli a bonus e sgravi, abolizione o comunque ridimensionamento dell’assegno unico familiare, web tax e così via. Tante misure diverse tra di loro, senza uno straccio di cifra, e soprattutto slegate da una logica e da una strategia di politica economica. È perfino superfluo sottolineare come l’incertezza non faccia bene all’economia e deprima gl’investimenti per l’anno prossimo, che dovrebbero essere programmati proprio in queste ultime settimane dell’anno: nel dubbio, è probabile che molte imprese decideranno di rinviare, ridurre gl’investimenti o addirittura azzerarli. Alcuni indizi sulla strategia governativa ci sono: la Meloni è timorosa di prendere misure che potrebbero alienarle definitivamente il consenso del ceto medio, soprattutto al Nord, e pertanto non vuole sentir parlare di aumento delle imposte a dipendenti e piccole imprese. Forza Italia, come da tradizione, difende gl’interessi delle grandi imprese, e la Lega è favorevole a misure assistenziali ed a favore dei più fragili. Una possibile convergenza potrebbe essere, quindi, una maggior imposta sull’e-commerce e sulle imprese digitali (una sorta di “web tax”): infatti colpirebbe prevalentemente colossi stranieri come Yahoo, Google ed Amazon, che battono bandiera straniera, solitamente a stelle e strisce, ed in Europa operano da sedi poste in Paesi come l’Irlanda, o l’Estonia, o la Repubblica Ceca. L’unico problema è che Elon Musk (proprietario del popolare social “X”, ex Twitter) ed amici non solo sono alcuni degli uomini più ricchi e potenti al mondo, ma hanno anche effettuato importanti investimenti in Italia, negli ultimi quindici anni, proprio per restituire al nostro Paese una parte del mancato gettito fiscale. Inoltre, è innegabile che le Pmi italiane hanno finalmente scoperto il commercio digitale, e che parte del recente successo delle esportazioni italiane si spiega anche così. Che cosa accadrà, in futuro, se schiaffeggeremo la mano tesa che ci arriva dalla Silicon Valley? D’altra parte, l’Italia, al confronto con gli altri Paesi europei, è un Paese ancora arretrato da un punto di vista digitale: infatti la classifica europea ci vede al quart’ultimo posto, davanti a Grecia, Romania e Bulgaria. Quindi non siamo un mercato così importante per le multinazionali mondiali, da poter fare la voce grossa. Altra carta che vorrebbe giocare il Governo è quella della maggiore tassazione degli utili d’impresa. Ora, a parte il fatto che imposte del genere non hanno mai portato molto nelle casse statali: all’impresa basta fare un acquisto, magari da una società controllata o collegata, ed abbatte l’utile. Ma il vero non senso è quello che, contemporaneamente, si tassano maggiormente gli utili e si eliminano agevolazioni come l’ACE (Aiuto alla Crescita Economica). Si trattava di una misura che dava la possibilità di dedurre dal reddito imponibile la quota di rendimento figurativo che le imprese avrebbero dovuto conteggiare per aver scelto di finanziare gli investimenti con capitale proprio, piuttosto che con capitale di terzi. Grazie all’ACE, che esiste dal 2011, in piena crisi dei debiti sovrani, le imprese sono state sostenute nei loro sforzi di patrimonializzazione e di rafforzamento davanti alle crisi finanziarie, potendosi da un lato autofinanziare di più, e dall’altro presentandosi con maggiore credibilità presso i mercati finanziari, ottenendo così dei finanziamenti a tassi migliori e stimolando gl’investimenti. Con l’abolizione di misure come queste, considerando il costo del denaro ancora alto e la contemporanea maggiore tassazione degli utili, si ottiene un forte effetto depressivo sugl’investimenti delle imprese. Il che, ovviamente, non potrà che avere effetti negativi sulla crescita economica futura. Se quello è l’obiettivo, allora siamo sulla buona strada per realizzarlo pienamente.