di Lorenzo Cinquepalmi
È dei giorni scorsi la lodevole iniziativa di parlamentari d’opposizione per l’inserimento ex lege negli statuti dei partiti dell’espressa adesione alla Dichiarazione universale dei diritti umani, affascinante ma di difficile prospettiva di riuscita. Enzo Maraio, segretario del PSI il cui statuto già è fondato sui medesimi principi e valori, la proporrà comunque nel prossimo Consiglio nazionale. La questione induce a interrogarsi su cosa siano diventati i partiti politici. Per la Costituzione sono libere associazioni vincolate al rispetto del metodo democratico, il cui assetto è rinviato alla legge ordinaria. Ma una legge organica sul modello legale di partito e sulla rappresentanza politica non è stata mai approvata. Nella prima repubblica, con i partiti di massa, l’ampiezza della partecipazione popolare alla loro vita sopperiva alla mancanza di regole, ma con l’assetto uscito dalla slavina del 1994, la forzatura dei principi di democrazia interna è arrivata ad assumere proporzioni esiziali per un sistema di rapporti politici e sociali coerente con Costituzione e Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Nella società, il ruolo di partiti capillarmente presenti sul territorio non è solo quello di concorrere dialetticamente a indirizzare le scelte del Paese, ma anche quello di formare i cittadini alla politica, stimolare interesse e partecipazione alla vita pubblica, dare al maggior numero di elettori le conoscenze da cui nasce il coinvolgimento nel dibattito e nel voto. Nella seconda repubblica il numero di chi vota è crollato e la volatilità elettorale, la superficialità di scelta, è cresciuta enormemente. Partiti personali, movimenti senza basi teoriche, liste in cui simbolo elettorale e scelta dei candidati sono monopolio di un pugno di persone; da Di Pietro, a Grillo, a Conte gli esempi più clamorosi. Come spiega da anni Ugo Intini, un’azione scientifica di allontanamento dei cittadini dalla politica, soprattutto attraverso il prosciugamento delle risorse economiche indispensabili per le strutture attraverso cui i cittadini si avvicinano alla vita pubblica: sezioni, associazioni, giornali, scuole di formazione politica, sta uccidendo la democrazia. Ogni forma di investimento sulla crescita della coscienza politica dei cittadini è stata rasa al suolo. I disegni di legge sull’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, del PSI e di altri, sono stati eutanasizzati in Parlamento senza nemmeno essere calendarizzati. Abbiamo leggi che fissano i modelli legali per le società di capitali, stabilendo organismi, maggioranze decisionali, scopi e limiti, ma non abbiamo una legge che faccia qualcosa di analogo nel settore più importante della vita sociale: quello della rappresentanza politica e della partecipazione dei cittadini. Il registro dei partiti politici non basta: nei dieci anni dalla sua istituzione non si è fermata la mortale tendenza all’estraniazione che avvilisce la democrazia. Occorrono regole che assicurino la rappresentatività popolare e territoriale dei partiti: garantire l’esistenza, dietro simboli elettorali, candidati ed eletti, di una volontà popolare diffusa, sia per sostenitori che per aree geografiche. Occorre che numero dei sottoscrittori e presenza territoriale, oggi imposti solo per la presentazione delle liste, diventino la base legale per la costituzione delle forze legittimate a partecipare alle elezioni. Ma, soprattutto, occorre finanziare la politica, in modo trasparente e senza malversazioni, stimolando la rinascita di ambiti di discussione, partecipazione, selezione e formazione della classe dirigente destinata alle istituzioni democratiche che, se rappresentate da gente improvvisata e incompetente (e ve ne sono esempi che sarebbero umoristici, se non fossero drammatici), perdono sia la loro funzione che la loro sacralità, spingendo verso tentazioni non democratiche. Uno scenario che è sotto gli occhi di tutti.