di Stefano Amoroso
Aggrappate ad una bozza che pareva non volersi mai trasformare in documento finale, dopo numerosi colpi di scena e molte ore extra di trattative serrate, le delegazioni dei 194 Paesi partecipanti alla COP29, l’edizione del 2024 della conferenza sul clima più importante del pianeta, alla fine hanno approvato un documento finale destinato a fare da spartiacque tra il passato ed il futuro. Infatti, al centro del documento c’è l’approvazione di un doppio obiettivo finanziario: da un lato verranno mobilitate risorse pari ad almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, con i Paesi industrializzati nel ruolo di leader, e dall’altro ci sarà un ampio incremento globale e multi-attore della finanza per il clima, che punterà a mobilitare almeno 1.300 miliardi all’anno entro il 2035. Certo, bisogna ricordare che i Paesi in via di sviluppo, riuniti nell’alleanza denominata G77 (anche se in realtà gli aderenti sono ormai 134), chiedevano un impegno ancora maggiore, fino a 500 miliardi di dollari all’anno, e finanziato prevalentemente con denaro a fondo perduto, proveniente esclusivamente dai Paesi sviluppati. Non sarà così, e la finanza climatica sarà sostenuta sia da fondi pubblici che privati, in parte a fondo perduto ed in parte a prestito. Insomma, i Paesi in via di sviluppo non hanno ottenuto tutto quello che volevano, ma certamente hanno avuto molto. Considerando anche che si partiva da pochissimi fondi, messi a disposizione con criteri poco trasparenti e con obiettivi assai confusi. Pertanto, almeno dal punto di vista finanziario, si può ben dire che il bicchiere della COP29 è mezzo pieno. Anche i Paesi emergenti con maggiori disponibilità (Cina, Corea del Sud, Paesi del Golfo Persico, Singapore ed altri) sono invitati a partecipare al finanziamento delle attività per la transizione ecologica e la mitigazione del clima. Tuttavia, anche se dovessero astenersi (difficile che sia così), vale la pena di ricordare che 300 miliardi di dollari l’anno rappresentano appena lo 0,7% del Pil annuale dei Paesi del G7, che riunisce le sette maggiori economie industrializzate del mondo tra cui l’Italia, e lo 0,34% del Pil mondiale. Insomma, è la classica tazzina di caffè (forse neanche quella) donata a chi è povero e senza risorse. E che spesso paga duramente un cambiamento climatico che non ha creato. Il grande interesse sorto intorno alla conferenza di Baku è testimoniato dai 66mila visitatori tra delegazioni ufficiali, osservatori, attivisti e media: si tratta della seconda conferenza sul clima più affollata di sempre, dopo quella di Dubai. E sono stati soprattutto i Paesi emergenti a mostrare grande interesse per i lavori della COP29: le delegazioni più numerose, infatti, erano quelle dell’Azerbaigian (padrone di casa), Brasile, Emirati Arabi, Turchia e Cina. L’Italia ha portato una nutrita delegazione che non solo è stata la più ampia tra quelle europee, ma oltre il triplo di quelle di Paesi come Francia e Spagna. Tutto bene, dunque, sulle sponde del Mar Caspio? No, non tutto è filato liscio. Uno dei capitoli più spinosi, e non da oggi, è quello del Global Stocktake (GST), ovvero il meccanismo di valutazione dei progressi ottenuti a livello globale nella risposta alla crisi climatica e nell’implementazione delle misure dell’Accordo di Parigi. Ebbene, la presidenza azera, forse intuendo la litigiosità dei partecipanti alla Conferenza, ha deciso di spacchettare questo controverso tema su tre tavoli negoziali, nella speranza che almeno uno arrivasse a conclusione. I fatti gli hanno dato torto, purtroppo: tutti e tre i tavoli si sono conclusi senza l’approvazione di un testo condiviso, e la discussione è stata rinviata alle prossime conferenze. E l’Italia, come torna da Baku? L’impressione è che ci sia grande movimento per rivedere la nostra politica energetica, troppo schiacciata su gas naturale ed idroelettrico: il primo non aiuta a risolvere il problema delle emissioni, pur essendo un miglioramento rispetto a carbone e petrolio, mentre il contributo del secondo è destinato a calare drasticamente a seguito del cambiamento climatico e della diminuzione delle piogge, in un drammatico circolo vizioso che purtroppo non lascia molte alternative al Belpaese. Per il resto, il nulla assoluto: l’Italia brilla per assenza su tutti i temi più dibattuti, ed i dati ci dicono che è in coda a gran parte dell’Europa sia per il contenimento delle emissioni nocive, sia per l’adozione di tecnologie pulite, e perfino per l’adozione di serie politiche per l’adattamento climatico. Insomma, zero su tutta la linea, proprio negli anni cruciali per la sfida più importante del secolo.